E anche quest’anno Ramadan è finito: un Ramadan speciale per me, in quanto da aprile mi sono trasferita in Tunisia, per poter raggiungere mio marito che da ottobre scorso ha ripreso il suo percorso di studi nel suo Paese d’origine.
Ero entusiasta all’idea di poter vivere questo mese sacro in un Paese musulmano, animata dalla curiosità e dalla voglia di poter immergermi nell’atmosfera ramadanesca vera e propria, cosa non possibile in Italia, dove mancava uno dei tasselli fondamentali: la gioia di condividere questi momenti con la famiglia di mio marito. Per chi non lo sapesse, il Ramadan rappresenta il quarto dei cinque pilastri dell’Islam. E’ il mese sacro per i musulmani, durante il quale oltre al praticare il digiuno alimentare (cibo e bevande) e sessuale dall’alba al tramonto, si accresce anche l’attività della preghiera, intensificando la lettura del Corano, la meditazione, cercando di adottare un comportamento consono a questo mese di purificazione, allontanando i cattivi sentimenti (rabbia, invidia, gelosia..) e cercando di essere gentili con il prossimo: non bisogna litigare, né mentire, né calunniare. E’ anche il mese della “zakat”, la carità, durante il quale il credente deve cercare di dividere i suoi beni con coloro che ne hanno bisogno. Il tramonto del sole pone fine al digiuno e in questo momento, chiamato “Iftar”, l’astinenza viene interrotta mangiando un dattero o bevendo dell’acqua, come il profeta Muhammad saw.
Quest’anno, vivendo in famiglia, ho deciso di digiunare anche io, in una forma di rispetto verso i miei suoceri. Il digiuno l’ho vissuto come una sorta di sfida con me stessa: sin dalle superiori, ammiravo la mia migliore amica, di origini marocchine, che vedevo ogni anno sostenere il digiuno nonostante studio e interrogazioni. Ammiravo la sua fede e la sua forza di volontà, un’ammirazione che poi nel corso degli anni si è estesa a tutti i fedeli musulmani, soprattutto quando Ramadan coincideva con i mesi estivi. Confrontandoli con la comunità cristiana in cui vivevo, li consideravo molto più praticanti e perciò, in un certo senso, più credenti. Un’associazione che poi, con il tempo, e grazie anche all’esperienza di quest’anno, mi sono resa conto di quanto sia in realtà inesatta e superficiale.
Le amiche di mia suocera, saputo che anche io ero “saima”, ossia a digiuno, si stupivano, compiacendosi del fatto che un’italiana praticasse Ramadan, a dispetto invece, ahimè, di diversi tunisini. In queste parole mi sembrava di leggere un messaggio implicito: chi non pratica Ramadan non è un buon musulmano.
L’anno scorso in Tunisia il ministro degli affari religiosi, Nourredine El Khademi, ha dichiarato ad una radio locale: “Il digiuno concerne tutto il popolo tunisino e l’apertura dei caffè durante il Ramadan è contraria all’identità del popolo e alla sacralità del mese. Coloro che non digiunano possono mangiare a casa loro”. Dichiarazioni che avevano scatenato le reazioni dei non digiunanti che sul web, attraverso l’hashtag #Fater (“io non digiuno” in tunisino) indicavano i locali aperti a Tunisi e dintorni. Nessuna legge, in Tunisia, dispone ai caffé e ai ristoranti di chiudere durante il mese di Ramadan, né punisce i tunisini che non digiunano in pubblico: come potrebbe essere, considerando che il Paese è abitato anche da cristiani, ebrei e atei (anche se questi ultimi sono ancora un argomento tabù)? E considerando che ci sono delle categorie escluse dal digiuno: ammalati, donne incinte o che allattano, bambini…. Senza contare i musulmani non praticanti e i turisti.
Quest’anno non ho riscontrato polemiche, e per assicurarmi che in effetti non ci fossero problemi, un pomeriggio sono andata al Lac con un’amica, che ha bevuto tranquillamente il suo caffè, e non era l’unica: il locale era pieno, chi fumava, chi mangiava e beveva. Ovviamente per rispetto dei digiunanti non c’erano tavoli nei giardini, e i vetri erano coperti dalla tende, in modo che dall’esterno non si potesse vedere nulla. Idem in Avenue Bourguiba. E nessun “salafita” è venuto a minacciare i clienti.
Ad ogni modo mi sono accorta, confrontandomi anche con diverse persone, di come in realtà l’ammettere di non fare Ramadan possa rientrare tra i tabù: si teme la reazione e la considerazione che le persone (familiari, vicini, amici) possono avere. Già, la “reputazione” è ancora molto forte: poi non fa niente se magari si mangia o beve di nascosto. Occhio non vede, cuore non duole. E in questo senso mi sono ricreduta sul mio pensare che praticante equivalga forzatamente ad essere un buon credente. Dipende sempre dall’intenzione, dallo spirito con cui si fa qualcosa; senza considerare che, se si è abituati a fare tutto ciò sin da bambini, può venire automatico, spontaneo, e non ci si pensa più di tanto al significato profondo che invece il mese in sé ha.
D’altra parte mi sono resa conto di come qui la religione sia vissuta in maniera più spontanea – e quindi più soggetta ad errori – rispetto a quello che io definisco “l’Islam italiano”, formato da convertiti, con cui non ho avuto proprio una bella esperienza, con eccezioni ovviamente.
Anche lo “spirito ramadanesco” per certi versi mi ha ricordato lo “spirito natalizio”: vedesi le persone che digiunano dormendo tutto il giorno. Facile in questo modo, ma si perde del tutto lo vero spirito del Ramadan. Il digiuno in un certo senso pone le persone sullo stesso piano di quei poveri che non hanno di che cibarsi per tutta la giornata. Ricorda quanto si è fortunati, al momento dell’iftar, nel poter sedersi attorno ad una tavola apparecchiata, insieme alla propria famiglia. Insegna anche a controllarsi, a non arrabbiarsi per ogni minima cosa: basta vedere i social network per rendersi conto di come sembra che tutti siano in preda a un’isteria collettiva e che non sia poi così semplice avere una parola di gentilezza nei confronti del prossimo.
Un dubbio però mi rimane: ha senso durante Ramadan, non bere, pregare, comportarsi bene con gli altri, ma poi non rispettare nulla di tutto ciò per il resto dell’anno? Ha senso che gli alcolici spariscano improvvisamente dai banconi del supermercato e poi, due giorni dopo l’Eid – al – Fitr, la festa della rottura del digiuno, ricompaiano e si trovi già la gente a riempire i carrelli (comici i giorni pre Ramadan: carrelli riempiti all’inverosimile per fare la scorta di alcol, presumibilmente da chi non pratica Ramadan)? Che spiando nei caffè delle vie del centro alle 10 di mattina si vedano i vecchietti ricominciare a bere le loro birre o i loro calici di vino?
Ritornando invece alla mia esperienza, ammetto che, essendo la prima, di certo non l’ho potuto svolgere al meglio, senza contare che mi mancava il tassello spirituale vero e proprio, ossia la preghiera serale comunitaria in moschea: me ne sono pentita, perché sarebbe stato interessante coglierne l’atmosfera, ma con il problema della lingua, non avrei capito nulla per cui ci ho rinunciato.
Ad ogni modo, sono stata contenta di aver potuto condividere questo mese importante con la mia famiglia acquisita: i pomeriggi passati ad aiutare mia suocera nella preparazione dei piatti, alternando cibi tunisini a quelli italiani, ascoltare la recitazione del Corano, aspettare con impazienza il richiamo del muezzin al maghreb per poter gustarsi il primo bicchiere d’acqua della giornata, mangiare tutti assieme, il capire l’importanza delle piccole cose, lo stare svegli fino alle 3 passate, rifocillandosi al sohor con dolci, yogurt e litri d’acqua per immagazzinare il necessario per la giornata successiva, la gioia condivisa di Eid – al Fitr…
Al prossimo Ramadan, in sha Allah