Così è…se traspare. Storie di finanza e (mancanza di) trasparenzaFassina impari da Lama: il salario non è una variabile indipendente (e nemmeno il lavoro)

Su Huffington Post, Fassina ha rivolto 10 domande a Renzi. Perché 10? I numeri sono importanti. E in questo caso non possono non rimandare alle 10 domande a Berlusconi. Una comunicazione subliminal...

Su Huffington Post, Fassina ha rivolto 10 domande a Renzi. Perché 10? I numeri sono importanti. E in questo caso non possono non rimandare alle 10 domande a Berlusconi. Una comunicazione subliminale per ricordare l’argomento della somiglianza tra i due. Ma la differenza fondamentale è che almeno queste sono domande di politica economica. E il fulcro è l’articolo 18, e la sostituzione del reintegro con l’indennizzo economico. E anche qui i numeri sono importanti. Quanto deve essere il reintegro? E quanto costa l’impossibilità di indennizzare?

Ragionando su questo, è facile capire che l’argomento principale di Fassina, e cioè che l’abolizione del reintegro indebolirebbe il lavoro e porterebbe a una riduzione dei salari (il suo punto 7) in realtà punta nella direzione opposta. E’ proprio la garanzia di reintegro che deprime i salari. Li deprime perché rende il lavoro dipendente garantito una fonte di reddito priva di rischio. E a basso rischio corrisponde basso rendimento. Li deprime anche perché taglia possibilità di investimento che altrimenti sarebbero convenienti, sia per il capitale che per il lavoro. Rende impossibile negoziare tra capitale e lavoro il costo di una forma assicurativa: quella sul rischio aziendale. Illustriamo il punto con una storia di gelatai, comparsa sui giornali in questa estate piovosa.

A ferragosto un giornale riportava che Grom,, una catena di gelaterie, aveva introdotto nel contratto aziendale una clausola per cui i dipendenti avrebbero sostituito il loro lavoro nei giorni di pioggia con lavoro nei giorni di sole. E’ una forma chiarissima di utilizzo di contratti derivati in un contratto di lavoro. Il contratto derivato in oggetto è piuttosto sofisticato e difficile da valutare: fa parte di una categoria che si chiama “weather derivative” ed è basata sul clima (tipicamente, giorni di pioggia). Lasciamo a ciascuno di voi, mettendosi nei panni di un commesso, una valutazione sulla qualità del contratto. State a casa nei giorni di pioggia e andate a lavorare nei giorni di sole: è forse il migliore dei mondi possibili? Probabilmente si sarebbe potuto fare di meglio, e in maniera più trasparente, con l’utilizzo esplicito dei contratti derivati. Grom avrebbe potuto comprare assicurazione contro i giorni di pioggia da una banca e dividere questo costo con i dipendenti. Senz’altro, la banca gli avrebbe fatto pagare il contratto derivato. La domanda è: i dipendenti di Grom, che si sono sostituiti alla banca, sono stati retribuiti per il valore del derivato che hanno venduto? Non lo sappiamo, perché non conosciamo i dettagli del contratto. Ma una riflessione analitica su questo caso ci consente di fare considerazioni di natura più vasta sul tema dei contratti di lavoro, che è al centro della discussione in questi mesi.

Cosa non va nel contratto Grom? Probabilmente il fatto che il contratto è tra datore di lavoro e dipendenti che non sono esperti di “weather derivative”, e soprattutto il fatto che il contratto prevede esclusivamente la “physical delivery”, cioè non il pagamento della perdita di esercizio in caso di pioggia, ma la fornitura di ore di lavoro in altri periodi. Un contratto con “cash settlement” avrebbe fornito un’assicurazione per i giorni di pioggia, ne avrebbe fornito una valutazione, e avrebbe consentito di ripartire, nel contratto di lavoro il costo tra datore di lavoro e lavoratori. I lavoratori avrebbero potuto scegliere a loro volta se partecipare al pagamento, e se partecipare al pagamento con “cash settlement” (con una riduzione del salario) o con “physical delivery” (“rimettendo”, come si dice, le ore di lavoro).

Il fatto che il costo dell’assicurazione contro le perdite aziendali non è trasparente perché non è monetizzato o monetizzabile suggerisce un’estensione delle stesse riflessioni alla questione dell’articolo 18 e in generale del valore dell’indennizzo. Pensate al seguente caso. Un imprenditore vuole aprire una nuova linea di investimento, che risulta promettente, ma, come tutti gli investimenti, non sicura. Sa che se non fa l’investimento, le chance di sopravvivenza, seppure con profitti più bassi, è elevata. Sa anche che se l’investimento va male e non gli è consentito di dismetterlo, tutta l’azienda andrà in default. E’ chiaro che l’imprenditore probabilmente non farà l’investimento innovativo. Sarebbe più propenso a investire se potesse pagare un’assicurazione che gli consente di chiudere la linea di investimento se questa andasse male. Si noti che se investisse in assenza di questa assicurazione si comporterebbe come un “raider” dell’alta finanza, perché scommetterebbe tutta la sua azienda per un nuovo progetto. E se il nuovo progetto andrà male, i vecchi assunti andranno a fondo insieme ai nuovi.

Per questo, senza garanzie di disinvestimento, fare nuovi investimenti richiede oggi più incoscienza che propensione al rischio. E’ vero che in caso di default interverrebbero “fondi avvoltoio” e altri soggetti che realizzerebbero il “turn-around”, di fatto separando la nuova linea di investimento dal vecchio “core business”. Ma questo estrometterebbe comunque il vecchio imprenditore. E inoltre, potremmo pensare a un caso diverso in cui l’apertura di una nuova azienda su un’idea di investimento è minacciata da innovazioni future a minore intensità di lavoro che potranno mettere fuori mercato l’investimento. In questo caso, senza la possibilità di uscire in tempo, la perdita da mettere in conto è maggiore di quella che si potrebbe avere se si disponesse di un’opzione di disinvestimento. Se negoziare questa opzione di disinvestimento è proibito per legge, investimenti che altrimenti risulterebbero convenienti cesseranno di esserlo. Nel mercato del lavoro di oggi, questo ruolo di veicolo di assicurazione è stato svolto dallo strumento della cassa integrazione, che invece avrebbe dovuto assicurare l’azienda contro shock temporanei (li potremmo chiamare di liquidità) invece che eventi di insolvenza. E la cassa integrazione straordinaria, quella a beneficio di pochi e a carico di tutti, anche quelli che non ne beneficeranno mai, scatena ulteriori distorsioni tra grandi e piccoli, protetti e non protetti, quella che un tempo si chiamava “aristocrazia operaia” e grande industria e tutti gli altri. Ma queste distorsioni sono ovvie, e non vale la pena di insistere oltre sul punto.

Si noti che rispondendo alla questione della storia dell’indebolimento dei salari abbiamo fornito una risposta a un’altra delle domande centrali di Fassina, che riecheggia ogni volta nel dibattito: “qual è il canale di trasmissione tra eliminazione della possibilità di reintegro e maggiori assunzioni a tempo indeterminato?” (punto 7). Questa è la mia risposta di oggi, sviluppata con i termini della teoria delle opzioni (opzioni reali, in particolare). Ma sappia Fassina che all’esame di Politica Economica di Ezio Tarantelli, al Cesare Alfieri di Firenze, portavamo un suo articolo che, con un modello di aspettative razionali, mostrava proprio il legame tra possibilità di licenziamento e propensione all’assunzione. E’ un articolo che ho perso, e di cui non ricordo più neppure i coautori. Chissà se i colleghi di oggi che erano in aula insieme a me come studenti di allora (Missale e Bordignon, ad esempio) ne hanno un ricordo più preciso. Comunque, correva l’anno 1981 o giù di lì. Quindi, il canale di trasmissione cui si riferisce Fassina era già noto, a studenti di università e non a premi Nobel, almeno ai tempi in cui Fassina sedeva nei banchi delle elementari e delle medie.

Fassina troverà altre strane similitudini in quegli stessi anni 80. Allora si parlava di chiudere la scala mobile, e anche allora si disse che era solo un “totem”. Si usò il suo stesso argomento di oggi, che era un indebolimento della forza lavoro. Il “totem” della scala mobile richiese il sacrificio umano dello stesso Ezio Tarantelli, ma questo era un segno dei tempi di allora. Quello che fu politicamente diverso, fu un segretario della CGIL, di nome Luciano Lama, che lanciò un hastag (quando non c’erano ancora neppure i personal computer): “il salario non è una variabile indipendente”. E’ sconcertante che con questa parola d’ordine Lama riconosceva che i salari sarebbero potuti scendere, mentre oggi Fassina non vede che con lo stesso principio oggi dovrebbero salire. E dovrebbero salire proprio in cambio dell’assicurazione di abbandono dell’investimento, che dovrebbe essere lasciata (o meglio venduta) agli imprenditori.

Senza la considerazione contestuale dell’articolo 18 e del salario, e con questa lettura di condivisione del rischio, e della sua retribuzione, anche la proposta dei giovani tecnici renziani di un ingresso di giovani senza protezioni dal licenziamento e allo stesso salario dei lavoratori protetti di fatto equivale all’offerta gratis di un’opzione di disinvestimento da parte dei nuovi lavoratori alle aziende. E senza la considerazione del salario, anche l’abolizione tout-court delle garanzie dal licenziamento, come richiesta dalla destra, sarebbe solo il regalo di questa opzione di disinvestimento al datore di lavoro. L’esempio di Grom, corretto come descritto sopra ed esteso alla generalità dei contratti, potrebbe indicare una linea intermedia, in cui ai lavoratori è permesso di negoziare, ovviamente con cognizione dei valori in gioco e con trasparenza, la possibilità che, in funzione di un indicatore di default del progetto di investimento (quelli che nei contratti di finanziamento si chiamano “covenant”), l’investimento possa essere chiuso, implicando quindi il licenziamento. Ma i covenant, come le garanzie e le opzioni si devono pagare. E non si devono pagare con una regoletta scritta una volta per tutte per tutti, del tipo: “giorni di paga per anni di lavoro e simili”. Devono essere pagati per il loro valore equo.

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