Faber, fabriTrentanove anni dopo l’assassinio di Pier Paolo Pasolini

Stanotte è morto Pier Paolo Pasolini. Poco importa che sia successo trentanove anni fa, perché oggi il mondo condanna alla stessa sorte i diversi, gli scandalosi, gli scomodi. Stanotte il corpo di ...

Stanotte è morto Pier Paolo Pasolini. Poco importa che sia successo trentanove anni fa, perché oggi il mondo condanna alla stessa sorte i diversi, gli scandalosi, gli scomodi. Stanotte il corpo di Pasolini è stato ritrovato massacrato, sporco e insanguinato sulla spiaggia dell’idroscalo di Ostia. Profetizzando anche la sua stessa fine si era difeso pochi mesi prima:

“In tutta la mia vita non ho mai esercitato un atto di violenza né fisica né morale. Non perché io sia fanaticamente per la non-violenza. La quale, se è una forma di auto-costrizione ideologica, è anch’essa violenza. Non ho mai esercitato nella mia vita alcuna violenza né fisica né morale semplicemente perché mi sono affidato alla mia natura cioè alla mia cultura”.

Prima di quella notte del 2 novembre aveva cominciato a morire ogni giorno: “La morte non è nel non poter comunicare, ma nel non poter essere più compresi”. Ogni giorno un chiodo gli veniva piantato addosso dall’ennesimo attacco, l’ennesima incomprensione. Fino a lasciarlo così, crocifisso, come il Cristo che aveva immaginato nel “Vangelo secondo Matteo”. E solo. Compianto solo dall’amata madre, guarda caso interprete sublime del ruolo di Maria nel “Vangelo”.

Sarebbe errato dire che Pasolini non soffriva di questa condizione di incomprensione che si manifestava ogni qual volta si esprimeva o pubblicava sul “Corriere della Sera”, allora diretto dall’innovatore Piero Ottone. Ogni suo intervento era accompagnato da decine di lettere che gli contestavano frasi che non aveva mai pronunciato e lo costringevano a repliche di difesa che restavano ancora una volta sospese, mute: “Che molti facciano finta di non capire è naturale..”. Dai politici agli intellettuali di sinistra, tutti gli rimproverano di parlare di cose già dette, di essere troppo “apocalittico”: forse che il poeta mirava solo a mettere in risalto la sua persona, la sua condizione di omosessuale? Da qui il disprezzo, la noncuranza, la freddezza al limite dell’irrisione. (Vedi l’intervista da Enzo Biagi http://www.youtube.com/watch?v=MxT12xgsKJ0).

Eppure, non c’era nulla di invisibile, di inspiegabile nei fenomeni che PPP vedeva emergere nella società degli anni Settanta, tutti riconducibili ad unica parola: infelicità. Infelici erano i giovani, costretti in una asfissiante “degradante ansia di consumo”. Infelici erano gli italiani, vittime di un fenomeno di “omologazione culturale” avviato dalla televisione, che proponeva loro modelli di “Giovane Uomo e Giovane Donna consumatori, che avvalorano la vita solo attraverso i suoi beni di consumo”. Infelici erano coloro che non riuscivano a realizzare questo modello di consumo: e da qui la frustrazione, l’ansia nevrotica. Infelici erano i sottoproletari che, vittime di un “progresso senza sviluppo”, si vergognavano della propria ignoranza, abiuravano il proprio modello culturale e disprezzavano la cultura borghese. Da qui l’impoverimento dell’espressività, la scomparsa dei dialetti (qui una raccolta di poesia in friulano http://www.pasolini.net/poesia_friulane.htm). Infelici erano i cattolici, perché il nuovo potere (“peggiore del ventennio fascista”) non aveva più bisogno di loro. Infelici erano i reazionari che rendevano le disumane stragi politiche attuabili per un motivo “terribilmente ovvio: la vita degli altri è un nulla e il proprio cuore nient’altro che un muscolo”.

Pasolini resta uno degli scrittori italiani inconcepibili in un contesto cosmopolitico, non italiano.

Rivive in questi giorni nel corpo di Roberto Herlitzka nello spettacolo “Una giovinezza enormemente giovane” (ispirato ai testi di PPP), scritto da Gianni Borgna (recentemente scomparso) e diretto da Antonio Calenda. Herlitzka, sublime, ci dona un Pasolini ultrasettantenne che, guardando se stesso barbaramente assassinato, ripercorre gli snodi principali della propria poetica con toni secchi e allo stesso tempo drammatici, lirici. Col disincanto che caratterizza un grande attore, Herlitzka si fa portavoce di un poeta maledetto, diverso, terribilmente attuale, disegnando un monologo sublime dall’immenso patrimonio creativo concepito da Pasolini. In un’epoca in cui le lucciole sono solo un ricordo, straziante, del passato.

“Mai la diversità è stata una colpa così spaventosa come in questo periodo di tolleranza”.

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