Faber, fabriVenticinque anni fa Leonardo Sciascia, “uomo di lettere”, spegneva l’ultima sigaretta

 “Che cos’è uno scrittore? Da parte mia, ritengo che sia un uomo che vive e fa vivere la verità, che estrae dal  complesso il semplice, che sdoppia e raddoppia – per sé e per gli altri – il piacer...

 “Che cos’è uno scrittore? Da parte mia, ritengo che sia un uomo che vive e fa vivere la verità, che estrae dal  complesso il semplice, che sdoppia e raddoppia – per sé e per gli altri – il piacere di vivere. Anche quando rappresenta terribili cose”.

Il 20 novembre di 25 anni fa si spegneva Leonardo Sciascia per una rara forma tumorale al midollo osseo. Tra i più significativi intellettuali del secolo scorso, Sciascia conosceva bene la realtà della Sicilia, convinto che l‘isola offrisse la rappresentazione di tante contraddizioni, non solo italiani ma anche europei, al punto da poter costituire la metafora del mondo odierno. 

Maggiore di tre fratelli (uno di questi morirà suicida a 25 anni), Leonardo Sciascia nasce l’8 gennaio 1921 a Racalmuto, un paese della provincia d’Agrigento ricco di miniere di zolfo e di sale: “Mio nonno si chiamava Leonardo, come me; era un gran lombardo alla Vittorini dagli occhi azzurri. Ho trovato suoi biglietti da visita: Leonardo Sciascia-Alfieri. Alfieri è un nome del nord, che aveva preso da sua madre insieme agli occhi azzurri, mentre Sciascia è un cognome propriamente arabo, che fino al 1860 sui registri anagrafici veniva scritto Xaxa, e che si leggeva Sciascia. In arabo vuol dire «velo del capo»”. Con questa commistione di sangue lombardo, arabo e siciliano, Sciascia cresce con una forte passione per la scrittura (“ricordo ancora il sapore dell’inchiostro, quasi me lo bevevo…); in biblioteca Manzoni, Ungaretti, Montale, Hugo, Diderot; e ancora i narratori americani, i poesti simbolisti francesi, i filosofi come Spinoza.

Si fa presto spazio tra le fila dei più grandi scrittori siciliani. “In Sicilia c’è una difficoltà di vita diversa e questo aguzza l’interesse a rappresentarla, a comunicarla, a farla conoscere. Può anche dipendere da una dimensione di ozio attivo, di ozio positivo più presente nella vita siciliana che altrove. Possono esserci tanti motivi…”. Sa essere poliedrico, spaziando da racconti filosofici (si pensi alla rivisitazione del Candido di Voltaire) ad articoli giornalistici, sceneggiature, saggi, fino ad arrivare a raccolte di poesie. I linguaggi con cui si esprime concorrono tutti al giudizio impietoso della società e della politica: le riflessioni sulla mafia, sul potere, sulla politica costituiscono il sottotesto, a volte satirico, a volte amaro, di tutta la sua produzione letteraria.

Assistendo a una seduta parlamentare nacque in lui l’idea di scrivere “Il giorno della civetta”. “Scrivo di mafia perché l’ho vissuta negli anni dell’infanzia. La letteratura siciliana era povera di esempi sulla mafia. Ho voluto scrivere questo racconto, Il giorno della civetta: la mafia da fenomeno rurale a fenomeno cittadino”. È un successo. Il libro scala le classifiche delle vendite, viene tradotto all’estero e sarà poi il soggetto del film di Damiano Damiani del 1968. Nel 1966 sarà la volta di A ciascuno il suo, un’altra storia di una mafia “ormai urbana e totalmente politicizzata”. Questo genere di successo lo rende destinatario di una minaccia mafiosa in forma di lettera: “Se Sciascia in Sicilia non sta bene, lo possiamo spedire in un posto dove starà molto meglio”. Eppure rifuggiva la definizione di “mafiologo”: “Sono un esperto di mafia così come lo sono in fatto di agricoltura, di emigrazione, di tradizioni popolari, di zolfara: a livello delle cose viste e sentite, delle cose vissute e in parte sofferte”.

Nonostante le frequenti polemiche con i critici di fede comunista, nel 1975 Sciascia, profondamente antifascista, accetta di candidarsi come indipendente nelle liste del Pci nelle elezioni comunali di Palermo. Eletto, si dimetterà presto, disgustato dalla politica del “compromesso storico” fra Pci e Dc. Dalle riflessioni sulla politica verrà fuori Il contesto, un implacabile e amaro apologo in forma di romanzo e di parodia, che suscita feroci polemiche con i critici vicini al Pci, adirati dalla sua tesi di fondo: che cioè nel viluppo, nel “contesto” di poteri criminali che governano lo Stato in modo onnipotente, anche il maggior partito d’opposizione decide coscientemente che la ragion di Stato coincide con “la ragion di partito”.

Nei suoi romanzi il potere ha un ruolo assolutamente di primo piano: esso rende del tutto impossibile il raggiungimento della verità. Anche in Todo modo, implacabile romanzo-pamphlet sull’Italia democristiana e gesuitica, il quadro è del tutto grottesco: il politico si rivela in tutta la sua mediocrità e ipocrisia e brucia nel desiderio di sovrastare gli altri, di dominarli, di avere un potere su di loro. È suggestiva la profezia dell’autodistruzione democristiana.

Nel giugno del 1979 accetta la proposta dei Radicali, si candida al Parlamento europeo della Camera ed è eletto in entrambe le sedi istituzionali. L’esperienza parlamentare sarà per lui soprattutto un mezzo per indagare sul caso Moro, come membro della commissione parlamentare d’inchiesta. Pochi mesi dopo il tragico assassinio Sciascia darà alle stampe L’affaire Moro, pamphlet col quale analizza le lettere che Moro prigioniero inviava a familiari, colleghi e amici. Fu uno dei primi a dichiarare le lettere di Moro vere: “Non ho mai avuto nessuna simpatia per il Moro politicante, ma ho sentito un grande affetto per quest’uomo solo, negato, tradito”. Nei confronti della politica della fermezza del governo, l’analisi di Sciascia è spietata: “È come se un moribondo si alzasse dal letto, balzasse ad attaccarsi al lampadario come Tarzan alle liane, si lanciasse alla finestra saltando, sano e guizzante, sulla strada. Lo Stato italiano è resuscitato. Lo Stato italiano è vivo, forte, sicuro e duro. Da un secolo, da più che un secolo, convive con la mafia siciliana, con la camorra napoletana, col banditismo sardo. Da trent’anni coltiva la corruzione e l’incompetenza, disperde il denaro pubblico in fiumi e rivoli di impunite malversazioni e frodi. Da dieci tranquillamente accetta quella che De Gaulle chiamò – al momento di farla finire – “la ricreazione”: scuole occupate e devastate, violenza dei giovani tra loro e verso gli insegnanti. Ma ora, di fronte a Moro prigioniero delle Brigate rosse, lo Stato italiano si leva forte e solenne. Chi osa dubitare della sua forza, della sua solennità? Nessuno deve aver dubbio”.

La sigaretta perennemente tra le dita, l’elegante giacca e la voce roca dal fumo, Leonardo Sciascia resta tuttora un incredibile testimone del Novecento, uno spirito libero, un anticonformista.  

“Non sono infallibile; ma credo di aver detto qualche inoppugnabile verità. Ho sessantasette anni, ho da rimproverarmi e da rimpiangere tante cose; ma nessuna che abbia a che fare con la malafede, la vanità e gli interessi particolari. Non ho, lo riconosco, il dono dell’opportunità e della prudenza. Ma si è come si è”.