Faber, fabriEugène Ionesco, “assurdo” non ricordarlo oggi

“La commedia umana non mi assorbe abbastanza: non appartengo interamente a questo mondo”, scriveva Eugène Ionesco nei suoi Diari in frantumi. Francese di origini romene, Ionesco fu tra i drammatur...

“La commedia umana non mi assorbe abbastanza: non appartengo interamente a questo mondo”, scriveva Eugène Ionesco nei suoi Diari in frantumi. Francese di origini romene, Ionesco fu tra i drammaturghi più emblematici del secolo scorso. Morì il 28 marzo 1994, nella sua casa di Parigi. Le sue oltre trenta opere costituiscono la proiezione di un mondo interiore, di un dramma individuale. Il suo, per l’appunto. Un’espressione dell’irrazionale dove il palcoscenico diventa un mezzo per interrogarsi su chi si è davvero.

Ionesco mise in scena l’angoscia esistenziale generata dal secondo dopoguerra, quando il quadro dei valori tradizionali crollò miseramente ricostituendosi in forma diversa, quella della società del benessere. Una società priva di ideali, dimentica del dramma trascorso, alienata e chiusa alla comunicazione. Era il “teatro dell’assurdo”, espressione coniata dal critico Martin Esslin nel saggio The theatre of absurd del 1961, che accomunava anche l’irlandese Samuel Beckett (1906-1989) e l’esistenzialista francese Jean-Paul Sartre (1905-1980).

Il risultato sulla scena non è realismo, né filosofia, né psicanalisi, né storia. È comico, ma neanche semplice divertimento. Le situazioni sono paradossali: l’azione è circolare, riportando lo spettatore al punto di partenza, o in salita precipitosa verso un’estremità assurda.

“Bisognava esasperare gli effetti del teatro, ingrandirli, sottolinearli, accentuarli al massimo. Spingere il teatro al di là di quella zona intermedia che non è né teatro, né letteratura. Spingere tutto al parossismo, là dove sono le fonti del tragico. Fare un teatro di violenza: violentemente comico, violentemente drammatico.” (Ionesco, Note e contronote, 1962).

I personaggi sono intrappolati in un mondo incomprensibile. Elementari, meccanici come robot e marionette, si trovano in una situazione di vuota immobilità. Sono fantocci, conchiglie vuote, manichini che “non sanno più parlare perché non sanno più pensare, non sanno più pensare perché non sanno più commuoversi, non hanno più passioni, non sanno più esistere”. Sono schiavi di un linguaggio che non favorisce la comunicazione, anzi la ostacola. Le parole, ripetitive e senza importanza, si dimostrano del tutto inadatte a esprimere il pensiero. Poco a poco, il meccanismo verbale disintegra il linguaggio: proverbi, onomatopee, vaniloquio, luoghi comuni, banalità. Il tutto in un ritmo folle e sempre più accelerato, come se i personaggi dibattessero per ragioni importanti, “per arrivare […], se questo fosse realizzabile, alla disarticolazione dei personaggi stessi. L’ideale sarebbe vedere le loro teste e le loro gambe progettarsi sul pavimento. Sfortunatamente, questo è impossibile”.

Come ne La cantatrice calva, prima opera teatrale, che appare nel 1950 a Parigi sulle scene del Théâtre des Noctambules. Ionesco, per il testo di quest’opera, si ispirò a un manuale di conversazione inglese, composto di frasi banali che non ammettono replica (“la settimana è composta di sette giorni”, “il pavimento è in basso, il soffitto in alto”, “Mr. Smith è impiegato”, “Mr. Smith e Mrs. Smith hanno tre figli”). Le relazioni sociali tornano a essere pura apparenza, prive di veri sentimenti, di desiderio di conoscenza. È un’”anticommedia”, una parodia del teatro senza sviluppo alcuno della narrazione. I due protagonisti, i borghesi Mr. e Mrs. Smith, recitano una serie di luoghi comuni, prendendo atto dello squallore di una società ormai massificata. L’arrivo del capitano dei pompieri in cerca di un incendio da spegnere, che ovviamente non c’è, costituisce il pretesto di un altro andirivieni di banalità che trova il suo culmine nella domanda “A proposito, e la cantatrice calva?”, e alla risposta: “Si pettina sempre allo stesso modo”.

La prima rappresentazione de La cantatrice chauve al Théâtre des Noctambules, 1950

Ionesco è in guerra contro il théâtre de divertissement degli anni Quaranta. In guerra contro il teatro engagé, veicolo di ideologie, strumento per asservire le masse e illusione di contare qualcosa. In guerra contro il théâtre réaliste, che condanna lo spettatore a una psicologia superficiale e obsoleta. È affascinato dai mezzi d’investigazione della psicanalisi, capaci di sondare l’ignoto e di aprire la scena alla rappresentazione poetica dell’immaginazione, degli incubi, delle visioni fantastiche.

Tout est permis au théâtre”. I generi possono essere mescolati, passando dal registro più alto a quello grottesco, ai meccanismi del teatro dei burattini, della music-hall, o del circo. Il pubblico deve essere continuamente stimolato: deve ridere, e un attimo dopo spaventarsi. Deve identificarsi con i personaggi in scena. Deve dimenticare dove si trova per tentare di svelare il proprio inconscio.

Una contemporaneità paradossale, quella di Ionesco, dove il paradosso non è solo critica di costume ma sembra ormai l’unico strumento per capire la realtà. Un tentativo che, ahimè, in tutte le opere fallisce, poiché nell’autore non c’è risposta. L’uomo sembra dunque incapace di vivere felice perché divorato dall’incomprensibile nostalgia di un altrove che nessuno riesce a definire. 

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