Post filosoficoL’Illuminismo di oggi

Poco più di un mese fa, nel Regno Unito, la Camera dei comuni ha approvato una legge potenzialmente rivoluzionaria nell’ambito delle tecniche di fecondazione artificiale (poi ratificata, a fine feb...

Poco più di un mese fa, nel Regno Unito, la Camera dei comuni ha approvato una legge potenzialmente rivoluzionaria nell’ambito delle tecniche di fecondazione artificiale (poi ratificata, a fine febbraio, dalla Camera dei lord). Nello specifico, la Gran Bretagna ha dato il via libera alla possibilità di far nascere bambini col patrimonio genetico di tre persone. Per prevenire la formazione di malattie dovute a cellule di DNA mitocondriale danneggiato, queste ultime verrebbero sostituite con quelle di una donatrice sana. Risultato: un padre e due madri, e un embrione con tre diversi DNA.  In Italia la notizia ha avuto un’eco mediatica abbastanza modesta, come spesso accade quando le cose avvengono oltre confine e non c’è di mezzo una dichiarazione di Brunetta. Tuttavia, la portata storica di questa legge (passata a larghissima maggioranza) ha subito acceso il dibattito nella comunità scientifica internazionale e, come ovvio, ha suscitato l’indignazione della Chiesa Anglicana.

È interessante notare come nel fronte contrario a questa tecnica vengano fatti valere due tipi di obiezioni molto diversi tra loro, e ben riassunti da questo articolo del Telegraph. Alcuni scienziati si oppongono per motivi che potremmo definire di tipo “cognitivo”: il triplo DNA potrebbe comportare rischi di cancro prematuro, non conosciamo ancora le relazioni tra DNA mitocondriale e nucleare, esperimenti analoghi condotti sugli animali hanno dato risultati negativi, e così via. C’è poi un altro fronte, che è quello della critica di tipo “morale”: i bambini non possono essere geneticamente alterati, l’eugenetica non è accettabile in nessun caso, in questo modo si gioca a fare Dio con tecniche che sono “innaturali”.

Bisogna specificare innanzitutto che la percentuale di DNA che verrebbe alterata corrisponde allo 0.054 del totale, e non andrebbe a modificare le caratteristiche fisiche fondamentali dell’individuo, collegate al DNA nucleare e non a quello mitocondriale.

La domanda allora è: perché gli argomenti cognitivi e quelli morali non possono essere concepiti gli uni in relazione agli altri? In un celebre discorso tenuto nel 1980, il filosofo Jürgen Habermas definiva la modernità, identificata in particolare con l’Illuminismo, come “un progetto incompiuto”. Il merito dell’Illuminismo, per Habermas, consiste innanzitutto nell’aver reso indipendenti, ognuna nella sua sfera di competenza, scienza, morale e arte, liberando così il potenziale cognitivo di ciascuna da forme esoteriche e dogmatismi. La specializzazione dei saperi, tuttavia, corrisponde solo ad un primo momento, a cui segue la loro messa in relazione: la scienza, nell’Illuminismo letto da Habermas e da lui considerato un progetto ancora incompiuto, non promuove solo il controllo sulla natura, ma anche il progresso morale, la ricerca della giustizia nelle istituzioni politiche. Per farlo, tuttavia, deve avvalersi delle conoscenze maturate in quei campi specifici. Un processo che, chiaramente, vale anche al contrario: la morale, per progredire, non deve prescindere ad esempio dagli elementi cognitivi che la scienza può fornirle.

Il pericolo principale, per Habermas, consiste proprio nel voler isolare un elemento (la ragione cognitivo-strumentale, quella pratico-morale o quella estetico-espressiva) rispetto agli altri. Da qui nascono quelle che lui stesso definisce delle “forme di terrorismo”. Esempi ne sono i tentativi di estetizzare la politica (pensiamo ad alcuni regimi totalitari), ma anche di sottometterla ad un rigorismo morale assoluto.

Applicando questo discorso al caso che ci interessa, quello che appare illegittimo, o non rispondente ad una modernità “compiuta”, è un giudizio sulla tecnica di fecondazione artificiale in questione che si basi su principi morali (l’illegittimità del “giocare a fare Dio”) totalmente slegati da elementi cognitivi (la tecnica può evitare che delle persone siano condannate a vivere con gravi malattie genetiche; la percentuale del patrimonio genetico che viene modificata è minima). L’Economist, nel prendere posizione a favore della legge, ha sottolineato proprio questo aspetto, evidenziando come “giocare a fare Dio è ciò per cui è concepita la medicina. Ogni parto cesareo, ogni trattamento contro il cancro, sono tentativi di interferire con il corso naturale degli eventi per il beneficio del paziente. Ciò non significa che qualsiasi procedura debba essere permessa, ma una generale concezione di ciò che è ‘innaturale’ non è buon criterio per decidere cosa vietare”.

Si potrebbe obiettare che il discorso è valido anche al contrario: una tecnica di questo tipo tiene conto solo di elementi cognitivi e non di elementi morali; anche in questo caso quindi le sfere vengono separate. La differenza, tuttavia, sta nel fatto che tra i vari argomenti morali pro e contro questa tecnica, solo quelli favorevoli utilizzano anche elementi cognitivi. Si può dire: “la tecnica eviterà delle malattie, e quindi anche per questo è moralmente accettabile, oltre che per la piccola percentuale di patrimonio genetico modificato”. In questo caso la valutazione morale non scompare, ma viene fatta sulla base di argomenti cognitivi: si cerca di far progredire insieme, quindi, scienza e morale. Sull’altro versante, non si può dire: “la tecnica non funziona, e quindi è moralmente da vietare”. Questo perché chi vuole vietarla per ragioni morali fa una considerazione che è del tutto indifferente alla reale efficacia della tecnica, e che si applica sia che questa funzioni, sia che non funzioni, tenendo quindi scienza e morale del tutto separate tra loro.

E ciò accade, tirando le somme, poiché il divieto di giocare a fare Dio è l’unica considerazione dogmatica tra quelle prese in esame, l’unica che non tiene conto dei dati di esperienza, che non adatta una prescrizione morale al modo in cui il mondo e la conoscenza si sviluppano. L’unica, tornando ad Habermas, che rimanda ad un’epoca premoderna in cui il dogma valeva più dello sviluppo armonico e congiunto dei campi del sapere e della ragione.

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