Come è noto, uno degli obiettivi dell’allentamento monetario della Bce, cominciato prima dell’attuale QE, è quello di provocare la svalutazione dell’euro nei confronti delle altre valute e in particolare del dollaro; ciò al fine di dare un sollievo alle esportazioni dell’area euro verso l’area del dollaro. Effettivamente negli ultimi dodici mesi l’euro si è svalutato di circa il 21% rispetto alla valuta Usa e potrebbe svalutarsi ancora di più se la Fed, come ha preannunciato, dovesse sospendere a giugno il suo QE, determinando un aumento dei tassi Usa e quindi uno spostamento di capitali dall’euro al dollaro.
Le conseguenze sulla congiuntura economica dell’area euro però finora sono state irrilevanti, perché la domanda estera è è solo una delle componenti della domanda aggregata, e anche la meno importante sul lungo periodo, essendo l’altra componente, la domanda interna per consumi e investimenti, di gran lunga più importante. La stasi di questa seconda componente che, ripetiamo, è la più importante, è dovuta alla nota politica di austerità imposta dalla Germania e dai suoi satelliti.
In particolare la svalutazione finora non ha dato il previsto sollievo alle cosiddette economie periferiche dell’eurozona, e questo perché accanto al cambio nominale, che è quello che si può leggere nei listini degli uffici cambi, vi è un cambio “reale” che sfugge a quei listini ma che opera più in profondità determinando effetti reali molto importanti. L’andamento di questo cambio reale è tra l’altro determinante per i paesi che adottano la moneta unica, e ai quali è sottratta la possibilità di manovrare il cambio nominale nei rapporti reciproci. La variazione del cambio reale è data dalla differenza tra l’incremento della produttività e l’incremento dei salari e dei prezzi, cioè quello che, quando la differenza è positiva, si chiama “svalutazione interna”.
La massiccia svalutazione interna, o deflazione interna, praticata dai maggiori paesi esportatori, Germania e Cina, è una delle cause all’origine della crisi globale e, per quel che ci riguarda, della crisi del debito nella zona euro. Ebbene questa causa di squilibrio anziché essere rimossa per ristabilire gli equilibri, quanto meno all’interno della zona euro, è proseguita nell’indifferenza generale generando un rafforzamento degli squilibri stessi. Insomma per i paesi messi peggio dell’eurozona è all’opera una rincorsa verso un obiettivo che si sposta sempre più in avanti che frustra qualsiasi sacrificio.
Per esempio, grazie alla predetta svalutazione euro/dollaro, e alla diminuzione del prezzo del petrolio, la Commissione Europea prevede che quest’anno tutta l’area euro registrerà una avanzo record verso l’estero di 330 mld pari al 3,5% del Pil, ma di questi ben 240 mld saranno appannaggio della sola Germania, pari all’8% del Pil di quel paese. Ecco perché gli altri paesi non avvertono ancora i benefici della svalutazione.
Una ricerca di Nomisma pubblicata in questi giorni mette bene in evidenza quello che sta accadendo. Nel periodo 2009-2013 i paesi indebitati dell’area euro (Francia, Italia, Spagna, Portogallo, Grecia), al fine di rincorrere la Germania, hanno ridotto il rapporto “salario reale per addetto/produttività nell’industria” dello 0,5%, ma tutto è risultato vano perché nello stesso periodo la Germania lo ha ridotto di ben il 2,5%.
Rileva giustamente il rapporto di Nomisma “i paesi indebitati hanno (in media) preso effettivamente a imitare il modello tedesco contenendo le dinamiche salariali nel settore esposto alla concorrenza internazionale rispetto a quello della produttività (-0,5% all’anno nell’industria). E’ stato, però, un tentativo insufficiente, perché quel modello ha continuato a operare in pieno regime nel paese d’origine. La Germania non ha infatti modificato i propri meccanismi propagatori di squilibri. La crescita tedesca ha continuato a basarsi sul taglio delle dinamiche salariali (-2,5%)”. La conclusione sconsolante del rapporto è che “svalutare nei confronti di chi svaluta di più è RIVALUTARE”. Quindi come noi abbiamo già scritto, sono soprattutto le industrie tedesche a beneficiare della politica monetaria di Draghi.
Questa rincorsa verso un traguardo che si sposta sempre più avanti, fatta di riduzioni salariali, aggiungiamo noi, sommato alle restrizioni della spesa pubblica, comporta una sempre maggiore compressione della domanda interna, il cui calo è all’origine della stagnazione nell’eurozona e la fa perpetuare. Se la Germania non si decide a invertire le proprie politiche e a fare da locomotiva per tutta l’area, le cose si complicheranno sempre di più e le crisi dei debiti pubblici rischieranno di diventare croniche. In queste condizioni qualsiasi politica di rilancio che viene adottata costituisce un regalo agli imprenditori tedeschi.
Purtroppo nessuno dei governanti ha il coraggio di dirlo energicamente alla Merkel.