Vanilla LatteTrump e l’elefante nella stanza

Alzi la mano chi, parlando di Donald Trump, dallo scorso giugno a oggi ha pronunciato – o sentito pronunciare – la frase “Prima o poi si sgonfierà”. Lo hanno affermato ripetutamente, i principali e...

Alzi la mano chi, parlando di Donald Trump, dallo scorso giugno a oggi ha pronunciato – o sentito pronunciare – la frase “Prima o poi si sgonfierà”. Lo hanno affermato ripetutamente, i principali esperti di politica a stelle e strisce, su entrambe le sponde dell’Atlantico. Lo hanno sostenuto con forza i suoi molti detrattori sul fronte democratico, e anche i suoi tanti non-estimatori su quello repubblicano. Insomma, lo abbiamo pensato un po’ tutti. Trump? Fenomeno passeggero. Trump? Dopo il Labour Day, sparirà dalle scene. Trump? Appena comincia la corsa vera, con le primarie, verrà travolto, o quantomeno ridimensionato. Eppure, oggi è ancora qui. Irriverente (sempre), sorridente (qualche volta), front runner (quasi certo).

E in più di un’occasione, tenendo a portata di mano un immaginario libro delle regole di come si dovrebbe condurre una campagna elettorale in America, numerosi fattori hanno portato a pensare, negli ultimi sei-otto mesi, che la corsa del treno Donald J. Trump, miliardario prestato alla politica, fosse prima o poi destinata a interrompersi, o stesse andando incontro a un disastroso deragliamento. Fin dal primo giorno, a dire il vero, quello dell’annuncio della candidatura alla Casa Bianca, con le forti e difficilmente dimenticabili affermazioni contro gli immigrati clandestini provenienti dal confine meridionale degli USA: “Quando il Messico manda le sue persone, non manda i migliori. Mandano persone che hanno avuto un sacco di problemi, e stanno portando questi problemi con loro. Portano droga. Portano crimine. Sono stupratori. E alcuni di loro, presumo, sono brave persone” (dal suo primo speech, 16 giugno, nella Trump Tower di Manhattan). Dopo frasi del genere, la sua campagna è finita: lo hanno pensato in molti. Anzi, lo abbiamo pensato tutti. Invece no. E da quel momento in avanti, lo stesso copione si è ripetuto innumerevoli volte: quando Trump ha deriso il senatore ed ex aspirante presidente John McCain, eroe di guerra del Vietnam. Quando ha attaccato la giornalista di FOX News Megyn Kelly. Quando ha offeso la candidata repubblicana Carly Fiorina. Quando ha ipotizzato il boicottaggio di Starbucks e di Apple. Quando ha proposto di proibire l’ingresso negli Stati Uniti ai musulmani. Quando ha insultato Fox News, New York Times, Washington Post e chissà quanti altri organi di informazione. Sulla sua strada si è posto persino il Pontefice: ha ingaggiato un duello a distanza con Papa Francesco. Nemmeno quello lo ha fermato o rallentato. La conta di risse verbali o via social intraprese da Donald J. Trump è lunghissima ed è necessario aggiornarla costantemente (cosa che avviene sul portale web del NY Times, che tiene il conto di tutte le persone da lui insultate, così come fa la CNN). Ogni volta, puntualmente, qualcuno ha affermato (o pensato): “Donald Trump ha oltrepassato il limite. Ora si sgonfierà”. Eppure, oggi è ancora qui.

Ospite di Jimmy Kimmel, il comico e presentatore Bill Maher, dalle mai nascoste simpatie liberal, ha paragonato Trump a “uno di quei mostri che si vedono nei film”, come Godzilla: “tutto quello che pensano possa distruggerlo, in realtà lo rende ancora più forte”. C’è dell’ironia, nelle parole del conduttore HBO (che peraltro ha aggiunto di non condividere alcunché delle posizioni politiche del candidato, ma di apprezzarlo poiché “politicamente scorretto”). Tuttavia, è una sintesi perfetta della campagna elettorale di Donald Trump per la Casa Bianca. Esplicito, tendente all’arrogante. Sempre all’attacco degli avversari e/o di chi lo critica, al limite dell’insulto. Per un solo giorno, quello successivo ai risultati dei caucus dell’Iowa, quelli conquistati da Ted Cruz, è sembrato che l’atteggiamento dell’ex protagonista di The Apprentice stesse cambiando, quasi con una doccia di umiltà dopo il primo posto mancato. L’impressione ha avuto breve durata: dopo qualche ora, The Donald era già su Twitter (che usa lui, personalmente, senza intermediari o staff) a fare fuoco a destra e a manca, nonché a puntare il dito contro Cruz, reo di aver “rubato” il risultato con oscuri sotterfugi (ovvero, facendo spargere la voce che Ben Carson si fosse ritirato dalla gara). Quindi, qualche giorno dopo, sono seguiti i successi in New Hampshire, South Carolina e Nevada. E Trump è tornato Trump. Sempre più Trump.

Ora, forse sarebbe il caso di cominciare a prendere sul serio l’argomento Donald Trump. Per lungo tempo, i media, i talk show, i democratici, gli stessi repubblicani lo hanno affrontato con sufficienza, ridicolizzandolo o minimizzandolo. Proprio perché pensavano, anzi pensavamo, che fosse un fenomeno passeggero. Questo è risultato evidente anche nei commenti dopo ogni turno delle primarie. New Hampshire? Il ritornello era “Cruz vince e allontana Trump” affiancato da “Rubio è il vero vincitore”. Iowa? “Kasich in risalita”. E avanti così: i simpatizzanti GOP (e anche i vertici del partito, forse) sono arrivati al punto di individuare, come ultima speranza targata establishment, un candidato come il senatore della Florida Marco Rubio, alquanto competente, preparato e di grandi speranze, ma che, piaccia o meno è ancora fermo a zero tituli, quanto a Stati conquistati. Uno wishful thinking in carne e ossa, più che una concreta possibilità. Così, mentre Trump continua a imporsi, e riesce persino a ottenere endorsement importanti come quello del Governatore del New Jersey Chris Christie – un siluro ai rivali Cruz e Rubio, a meno di ventiquattro ore dal dibattito in cui i due avevano messo alle strette il milionario – noi (e con “noi” si intende “noi, osservatori/appassionati/seguaci della corsa alla presidenza) perseveriamo nel sottovalutare, sminuire e ignorare il fenomeno (Beppe Grillo 2013, anyone?). Preferiamo concentrarci su altri dettagli, sugli aspetti ridicoli, ci piace parlare dei suoi capelli, o trasformarlo in divertenti meme. Forse nella speranza che, da un giorno all’altro, convochi una conferenza stampa in cima al Trump Tower di New York per annunciare l’immediata sospensione della sua campagna elettorale, magari per avviare una nuova stagione di The Apprentice. Eppure, oggi è ancora qui. In cima ai sondaggi, e a pochi passi dalla nomination del Partito Repubblicano.

Oltremanica, e dall’altra sponda dell’Oceano, si usa definire “elefante nella stanza” una realtà che, sebbene sia ovvia e davanti agli occhi di tutti, viene continuamente ignorata o minimizzata. Una espressione che, oggi, calza perfettamente per descrivere ciò che sta avvenendo con Donald Trump. Di certo un fenomeno difficile da spiegare, del tutto fuori dagli schemi. Senza dubbio, la calamità politica più interessante e meno prevedibile degli ultimi anni (da queste parti, se ne è scritto ad agosto). La variabile impazzita del sistema, che ha catturato quasi interamente l’attenzione e che stralciato, e in parte riscritto, buona parte dei manuali sulle elezioni americane. Che potrebbe anche non ottenere la nomination, ma resterebbe comunque un fattore con cui fare i conti (nel caso, a chi andrebbero i suoi voti? Correrebbe da indipendente, solo per affossare il GOP?). Sarà sicuramente sconfitto da Hillary Clinton, ripetono quasi tutti i commentatori. Gli stessi, però, che avevano dato per certa la sua uscita di scena dopo qualche settimana dalla discesa in campo. Dunque, meglio non dare alcunché per scontato. Si sgonfierà, Trump si sgonfierà. Eppure, oggi è ancora qui. E ignorarlo o sottovalutarlo non lo fermerà, né lo farà sparire. Quindi, forse sarebbe meglio cominciare a prenderlo sul serio.

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