Settembre è il mese nel quale si (ri)parte con le “cose serie”. L’estate della frivolezza, delle spiagge, degli happy hour lunghi è alle spalle, e le code, dall’autostrada si spostano in tangenziale che per tutta l’estate 2016 è stato il luogo dove andare a comandare muniti di trattore secondo il tormentone estivo firmato Rovazzi.
Parte questo nuovo blog, che ho voluto chiamare con un nome insolito “Generazione Harry Potter” perché noi nati a cavallo tra gli anni 80 e 90 siamo cresciuti, libro dopo libro prima e film dopo film in seguito assieme al maghetto protagonista della fortunatissima serie di romanzi fantasy ideata da Miss Rowling.
Una generazione che non ha conosciuto ne il muro di Berlino ne l’Europa divisa a metà ma che rischia di ritrovarsi nuovi muri, una generazione che considera familiare la bandiera blu con 12 stelle dorate in cerchio al centro, una generazione che i primi soldi che ha guadagno erano Euro, ma che rischia di vedere attributa, alla moneta unica, la colpa della crisi, una generazione che si è sentita rappresentata dalla campionessa di scherma Elisa Di Francisca sul podio delle Oimpiadi di Rio con la bandiera dell’Unione Europea, una generazione che si è data appuntamento al binario 9 e 3/4, King’s Cross Station, nord di Londra, viaggiando su un volo low cost comprato in internet e senza bisogno del passaporto, ma che rischia di ritrovarsi chiusa fuori da quel continente che considera come la propria casa, di conoscere quelle frontiere che non abbiamo mai veramente conosciuto. Ci hanno chiamato in tanti modi, ma noi che abbiamo amato Londra con la scusa del maghetto con gli occhiali, ci siamo dati appuntamento nelle piazze d’Europa durante l’Erasmus e alla fine ci siamo trovati a subire la Brexit.
Non c’è solo l’Europa dei conti e dei grafici, dei trattati e dei protocolli e della fredda razionalità. Per me, per quelli della mia generazione, l’Unione Europa (UE) non è solo una sigla, ha un’anima. Così oltre a quella economica, monetaria, a Schengen e alla famigerata unione politica, c’è un’ Europa sentimentale a cui siamo profondamente legati ed alla quale non vorremmo rinunciare. Se scorrete la rubrica del vostro smartphone dal quale probabilmente state leggendo questo post vedrete che avete amici in tutte le città che hanno subito un attentato, perché la cittadinanza, per noi, è qualcosa che va oltre la residenza o i nostri genitori. Parleremo di questo, ci fermeremo a riflettere, ad approfondire, al tempo della velocità dei social network.
Abbiamo un dovere ed è quello, come generazione, di raccogliere il testimone – ideale – di Altiero Spinelli e di farlo due punto zero, di trasformare la visione in condivisione di contribuire, ognuno nel suo piccolo – per dirla alla Giuliano Da Empoli – a costruire una cultura pop europea; e quale miglior punto di partenza che il romanzo fantasy scritto dall’ex segretaria londinese?
Discutevo, poco fa, su twitter, già perché noi le discussioni adesso le facciamo (anche) sui social network della vignetta pubblicata su Charlie Hebdo il settimanale satirico francese diventato noto su larga scala dopo l’attentato del 7 gennaio 2015. Nell’ultima pagina del numero in edicola, quella dedicata all’altra possibile copertina, sotto il titolo “Terremoto all’italiana” le vittime del sisma dello scorso 24 agosto paragonate a tre piatti tipici della nostra cultura gastronomica: penne all’arrabbiata, quelli insanguinati, penne gratinate, quelli impolverati, e lasagne per chi è rimasto sotto le macerie della propria casa.
Io non so perché siete stati Charlie voi, ma posso dirvi perché lo sono stato io.
Sono stato Charlie perché non si possono uccidere 12 persone perché ci si sente offesi dal lavoro altrui. Stéphane, Jean, Georges, Bernard, Philippe, Mustapha, Elsa, Bernard, Michel, Frederic, Ahmed, Frack lavoravano per un giornale satirico, il loro lavoro, del quale parlerò tra un attimo, era quello di fare satira. E non si può rispondere alla satira con le armi.
Sono stato Charlie per condannare la follia omicida degli attentatori non per sposare la linea editoriale del settimanale francese. Che non mi piace oggi, quando le vittime del terremoto del vengono paragonate a tre piatti di pasta, così come non mi piaceva dopo i terribili attentati alle Torri Gemelle di New York quando la copertina era dedicata a un broker che urla al telefono “Vendete” (presumibilmente azioni) mentre un aereo sta per schiantarsi contro una delle due torri. Così come non apprezzo nessun tipo di satira a sfondo religioso, si tratti di Islam, Cattolicesimo o qualsiasi altra forma di culto.
Siamo stati Charlie, e oggi non lo siamo, come non lo eravamo ogni settimana che il periodico arrivava in edicola perché conserviamo la capacità di esprimere un pensiero originale, di non uniformarci, di leggere la realtà non come tifosi che sposano una causa o una “parte” ma come esseri pensanti che valutano, scelgono, sostengono o criticano. Sempre nel rispetto.
E mi dispiace per chi prende Charlie Hebdo per un baluardo di libertà, non lo è e non deve esserlo: durante la direzione di Philippe Val, durata sino al 2009, lo stesso Val è stato addirittura accusato di conduzione troppo autoritaria, capitalista e tra le altre cose di aver licenziato giornalisti poco graditi.
Je suis Charlie non è l’affiliazione ad un club o l’abbonamento al settimanale che siamo corsi a comprare dopo l’attentato per dire, a chi doveva decidere se continuare, che non era solo ma è un grido a deporre le armi proprio nel momento in cui la violenza tenta di zittire un’idea, uno slancio creativo. Per questo rivendico, con la stessa forza (ideale non fisica) la libertà di dissentire se quell’idea mi offende. Chi decide la linea editoriale di Charlie Ebdo a mio avviso sbaglia, oggi come faceva ieri e come farà domani. La loro satira non mi fa ne ridere ne riflettere, ma sarò sempre in prima linea quando qualcuno proverà a zittirli con le buone o ancora peggio con le cattive. Chi ci vede incoerenza, evidentemente non ha capito fino in fondo cosa vuol dire essere Charlie, Parigi, Nizza o Amatrice.