C’è una città, una delle città più antiche del mondo, dove hanno smesso di contare i bambini che muoiono. È incredibile quello che sta succedendo ad Aleppo, come era incredibile quello che succedeva a Srebrenica negli anni 90 e ancora prima quando furono promulgate le leggi razziali e partirono i rastrellamenti.
La nostra generazione si sta abituando all’orrore: l’11 settembre 2001, la stazione Atocha di Madrid, le bombe nella metro di Londra, i giornalisti di Charlie Hebdo uccisi barbaramente, le teste tagliate, il Bataclan, Nizza, l’aeroporto di Bruxelles, la Turchia di Erdogan, i morti in mare, il piccolo Aylan, 3 anni, morto sulla spiaggia, Omran e il suo volto insanguinato, il museo del Bardo, la spiaggia di Sousse, le stragi di cristiani in Nigeria e l’elenco sarebbe ancora lungo.
In una fase storica nuova, come generazione, prima di tutto, dobbiamo sentirci mossi da una chiamata all’azione per rafforzare l’impegno per la pace. Bisogna ammettere che l’impegno per la pace, il cosiddetto pacifismo dall’obiezione di coscienza alle marce per la pace, ha visto in questi ultimi anni una caduta di entusiasmo, a fronte di eventi mondiali, ai quali abbiamo assistito in diretta tv o seguendoli passo passo sui social network, che hanno generato un clima di terrore e di violenze alle quali l’unica risposta giusta è sembrata, anche per il mondo giovanile quello culturlmente più attivo, la guerra con le armi.
Il mutamento profondo avvenuto nelle modalità con cui si manifesta la violenza tra le persone, i popoli, gli schieramenti provocando attentati, omicidi mirati, stragi ha portato ad una sorta di rassegnazione e di pessimismo, la parola guerra ha cominciato a farsi largo nei nostri discorsi, nei nostri tweet, nel nostro quotidiano. Una parola terribile, utilizzata con semplicistica facilità anche da leader politici in diversi paesi.
Serve andare oltre il pacifismo, costruire una “coscienza della pace”, non smettere di coltivarne il sogno, riaffermare il rifiuto della guerra – un’avventura senza ritorno come la definì più volte Giovanni Paolo II – come principio risolutore delle controversie internazionali, denunciare con coraggio il commercio delle armi, incoraggiare i tavoli tra Stati per risolvere col dialogo e il rispetto reciproco quello che oggi si prova a risolvere con le bombe.
Non accetto, e credo che non possiamo accettare l’idea di vivere in un mondo in cui l’armamentario nucleare a disposizione di un numero di nazioni sempre crescente tenga viva la minaccia di un nuovo olocausto nucleare con milioni di persone costantemente in pericolo.
L’aumento della connettività e delle connessioni sta rendendo una generazione sempre più consapevole di tutti i rapporti che compongono un mondo così vario e complesso. Abbiamo il dovere di guardare al Mondo sempre meno come un deposito di beni da espropriare e possedere, punto determinante per l’attivazione di ogni conflitto dai più piccoli ai più catastrofici e sempre più come labirinto di relazioni ed opportunità alle quali poter accedere.
Penso all’ educazione alla pace come luogo dell’integrazione, a livello di scuola e territorio, dei diritti e dei doveri di tutti e di ciascuno.
“Il diritto all’esistenza che hanno le città umane è un diritto di cui siamo titolari noi delle generazioni presenti, ma più ancora quelli delle generazioni future” così diceva Giorgio La Pira a proposito delle nostre città. Tocca a noi come generazione, chiedendo la collaborazione di tutte le istituzioni (laiche e religiose), costruire un nuovo percorso di pace, un pacifismo 2.0 fatto di meno bandiere da sventolare e più cultura e azioni concrete partendo ognuno dal proprio piccolo.
Il diritto all’esistenza che hanno le città umane è un diritto di cui siamo titolari noi delle generazioni presenti, ma più ancora quelli delle generazioni future”