di Francesco Carini – Homo Sum
Non credo che Dio abbia creato gli uomini perché non avessero famiglia (Cecil Gaines, interpretato da Forest Whitaker, nel film The Butler).
Anche se un pò sottovalutata dal grande pubblico per decenni, negli ultimi mesi sta tornando alla ribalta la parola disuguaglianza, sia tra individui che tra famiglie, con queste ultime che, in assenza o non sufficiente presenza dello stato sociale, non rappresentano semplici nuclei di convivenza.
Con un impoverimento generalizzato che in Italia (e parte dell’Europa) ha colpito ceti medi e meno abbienti, si é assistito a un fatto che probabilmente non é stato analizzato in pieno in tutta la sua drammaticità: 13 milioni di italiani hanno rinunciato alle cure. E quando si parla di milioni, non ci si riferisce a semplici unità tradotte con un numero su un foglio, ma ad individui in carne e ossa. Questo dato, in alcuni casi potrebbe accompagnarsi alla Status Syndrome, una condizione di cui si sta cominciando a parlare adeguatamente. Questa “condizione patologica”, il cui nome é stato coniato dal dottor Michael Marmot, si può legare alla precarietà, all’instabilità professionale, alla percezione di subalternità rispetto ai più ricchi o a chi sta ai vertici della gerarchia sociale, determinando un maggiore stato di stress all’interno di quei gruppi che, non potendo fronteggiare la disparità di accesso alle risorse e alle opportunità di uplevelling sociale, sono più soggetti a uno stato di stress prolungato, che a sua volta conduce ad una maggiore probabilità di ammalarsi (patologie endocrine o legate al sistema nervoso e immunitario) rispetto a chi parte da una posizione di vantaggio (a tal proposito risultano illuminanti gli studi del neuroscienziato Robert Sapolski dell’Università di Stanford, sulle conseguenze dello stress legato ai rapporti di dominanza fra i primati).
Mentre sempre più studi indicano come condizioni socio-economiche precarie conducano ad un peggioramento della salute e naturalmente della qualità della vita, una recente ricerca canadese riportata sul Canadian Medical Association Journal appena due mesi fa ha indicato come un maggior investimento in determinati servizi sociali garantirebbe una netta diminuzione della spesa pubblica in ambito sanitario (legato verosimilmente ad una maggiore condizione di sicurezza). Come riportato in un articolo del 9 febbraio scorso su oggiscienza.it, Daniel Dutton della School of Public Policy di Calgary, uno fra gli autori del suddetto studio, ha dichiarato: «abbiamo visto che se i governi spendessero anche solo un centesimo in più nei servizi sociali rispetto a ogni dollaro speso per i servizi sanitari, l’aspettativa di vita crescerebbe del 5% e in un solo anno le morti cosiddette evitabili si ridurrebbero del 3%». Lo stesso Dutton ha continuato: «se la spesa sociale si rivolge ai determinanti sociali della salute, diventa una forma di spesa sanitaria preventiva andando a modificare la distribuzione del rischio per l’intera popolazione».