Andrea Danielli, Alessio Mazzucco
Ha salvato il Paese e aiutato la nostra generazione, ma il suo nome è costantemente usato dal Governo attuale per distrarci e mantenere la propria campagna elettorale perenne. Abbiamo pensato di intervistare l’ex Ministro Elsa Fornero per portare nel dibattito generazionale idee solide e per confrontarci sui tanti dilemmi che come millennials ci troviamo ad affrontare quotidianamente. Ne è uscita una cordiale chiacchierata di quasi due ore: di seguito riportiamo i tanti gli spunti che ci siamo portati a casa.
Sul blog Millennials parliamo spesso della questione generazionale e degli squilibri esistenti nella spesa pubblica: dove sono e come possiamo affrontarli?
Se consideriamo un intervallo di tempo che va dal periodo di pre-crisi a oggi, risulta che le persone maggiormente protette non sono stati i giovani, che hanno sperimentato su di loro tutta l’incertezza e forse anche l’assenza di protezione, ma gli anziani. Il punto fondamentale è che, per qualche riflesso condizionato, dovuto in parte alla composizione della popolazione, i politici pensano sempre in termini di protezione delle classi più anziane: la conseguenza è che quel poco di sicurezza economica che si poteva dare in condizioni macroeconomiche difficili viene concentrata su di loro; al contrario, ai giovani abbiamo chiesto di essere flessibili senza cercare di capire se questa flessibilità sarebbe stata un elemento positivo, tale da generare maggiore occupazione o se si sarebbe trasformata in precariato, come purtroppo è avvenuto. Questo squilibrio è la lente attraverso la quale devono essere lette le riforme previdenziali: non come risorse sottratte agli anziani o come negazione di promesse fatte in passato, ma come una necessaria riallocazione di risorse per non far pesare soltanto sui giovani i costi dell’invecchiamento, della crisi economica e del rallentamento della nostra economia. Ed è un punto estremamente difficile da comunicare bene. È molto più facile affermare che I tagli non sono accettabili alle persone.
L’Italia ha bisogno di recuperare risorse per rilanciare investimenti e per un welfare più attivo. Possiamo recuperare denaro delle pensioni? Ha senso effettuare un ricalcolo contributivo per tutti gli assegni?
Non è una strada percorribile: è difficile ricostruire molte carriere lavorative, trovare e analizzare la documentazione; politicamente, occorre fare i conti col passato col buon senso, non è possibile correggere tutti i torti, a meno di diventare “talebani”. Alcune scelte che oggi appaiono ingiuste avevano all’epoca delle ragioni sociali e distinguere correttamente, per gli attuali pensionati, quale sia l’importo corrispondente ai contributi versati, ammesso che sia possibile, può diventare un’operazione socialmente molto “divisiva” e praticamente irrealizzabile. Pensiamo alle baby pensioni: oggi ci sono donne settantenni che hanno preso molto più di quanto hanno versato, e magari continueranno per altri vent’anni. In molti così, però, se togliessimo loro l’importo eccedente i contributi dovremmo probabilmente integrare il loro reddito con una “pensione di cittadinanza”, dato che non si pensioni, dobbiamo comunque riportare gli anziani nel mondo del lavoro (diverso è il caso dell’allungamento della vita lavorativa, per persone in buona salute). Motivo per cui il Governo Monti decise per il “contributo di solidarietà”, non una tassa (perché incostituzionale), ma un intervento temporaneo, deciso in un momento estremamente difficile e rivolto unicamente a persone con una pensione molto elevata, difficilmente coperta dai contributi.
In questa fase di scarse opportunità per i giovani le risorse di cui dispone la famiglia di appartenenza fanno la differenza. In che modo è possibile ribaltare la situazione e aumentare le opportunità di realizzazione?
Negli ultimi due decenni, abbiamo fatto dei passi indietro rispetto all’obiettivo di offrire a tutti le medesime opportunità: il campo da gioco non ha le stesse regole per tutti, e chi ha una famiglia abbiente alle spalle ha ben maggiori possibilità di successo. Chi non ha risorse, non ha la cultura né l’abitudine di indebitarsi per investire su se stesso, e in ogni caso non trova facilmente facilmente credito nel nostro Paese. Il debito, visto nel complesso del ciclo di vita, non è per forza negativo: è un investimento, se effettuato per accrescere il proprio capitale umano o per aprire un’attività economica. Se però non hai accesso al credito per investire, in capitale umano, fisico, o nella creazione di un’attività imprenditoriale, sei vincolato alle tue risorse proprie. Poiché il risparmio è localizzato maggiormente al Nord, una conseguenza del ruolo preponderante delle famiglie si ha nella crescente disuguaglianza tra i giovani del Sud e quelli del resto del Paese, con conseguente peggioramento delle prospettive del Meridione.
C’è una qualche policy pubblica per ridurre questo problema? Aumentare l’accesso al credito dei giovani?
L’istruzione è praticamente gratuita, ed è un valore da rispettare, in quanto consiste nel più forte strumento per livellare le opportunità di successo e consentire una concorrenza leale, non fondata sulla ricchezza ereditati. Il problema è che in Italia ci siamo preoccupati di fornire a tutti l’accesso, ma ci interessiamo meno della qualità dell’istruzione poi erogata: abbassare il livello non è stato un buon modo per alzare il livello delle competenze e delle capacità. È importante usare test per valutare la qualità dell’insegnamento e rimanere fedeli alla strada intrapresa. Servono politiche di valorizzazione dell’istruzione professionale, di consolidamento del ponte tra formazione e mondo del lavoro, come le forme moderne di apprendistato o l’alternanza scuola lavoro, che invece è stata cancellata. Occorre, sempre in ottica di autonomia, favorire l’attività imprenditoriale con agevolazioni creditizie e ridurre, peraltro senza far mancare servizi, gli oneri burocratici e i costi di intermediazione.
C’è un problema di disallineamento tra domanda e offerta sul mercato del lavoro che non viene affrontato né politicamente né culturalmente da parte della politica e, soprattutto, dei giovani?
Questo è il riflesso di un dialogo assente o troppo scarso tra mondo del lavoro e scuola, causato soprattutto dai pregiudizi esistenti da entrambe le parti. Talvolta, entro un’ottica ideologica, l’impresa è vista come biecamente motivata solo da una logica di profitto e quindi come sfruttatrice, ed è chiaro che questa rappresentazione influenza l’atteggiamento nei confronti del lavoro e anche la scelta di percorsi formativi. Da Ministro ho lavorato molto sull’apprendistato duale perché mi sembra uno strumento proprio per avvicinare I due mondi: non possiamo permetterci situazioni in cui la domanda di lavoro da parte delle imprese non trova capacità di soddisfazione all’interno del Paese pure in presenza di una disoccupazione elevata.
I giovani che hanno un lavoro in Italia ricevono bassi salari perché il datore di lavoro deve pagare tasse elevate e contributi pensionistici crescenti. Questo deprime i consumi di chi ha maggiori motivi per comprare: ci sono effetti macroeconomici sul Paese e sui consumi interni?
Il cuneo contributivo [la differenza tra il costo del lavoro al lordo di imposte e contributi e la busta paga di un lavoratore tipo] è molto elevato, anche se paragonabile a quello di altri Paesi europei. Per le sole pensioni, l’aliquota contributiva è pari al 33% della retribuzione lorda. Ciononostante, questa aliquota è insufficiente a garantire l’equilibrio previdenziale, tanto che lo Stato deve ogni anno versare all’INPS, per la sola previdenza, decine di miliardi provenienti dalla fiscalità generale. Nei primi anni duemila furono fatte stime per capire a quanto dovessero percentualmente ammontare contributi per essere in grado di coprire le pensioni: ebbene i numeri erano nell’ordine di 45 per cento per I dipendenti privati, e del 55-60 per cento nel settore pubblico. Aliquote ovviamente improponibili, sopratutto nel settore privato, esposta alla concorrenza internazionale ma anche nel settore pubblico, per l’elevatezza dei costi elevati dei servizi pubblici in rapporto alla loro qualità. L’unica soluzione politicamente accettabile è aumentare il numero di lavoratori, ossia la base su cui si applica l’aliquota contributiva: peccato che perdiamo migliaia di giovani che ogni anno lasciano pl’Italia per lavorare altrove. E peccato per i politici che, al contrario di quanto servirebbe, cercano piuttosto di redistribuire il lavoro che c’è, come è accaduto per esempio con quota cento, anziché di aumentarlo. È necessario invece creare occasioni di lavoro: possibilmente ben remunerato e di qualità ma occorre anche accontentarsi, in momenti di crisi, di lavori meno remunerati, purché il settore pubblico si impegni a fornire assistenza ai giovani che guadagnano meno, attraverso sgravi, interventi di welfare, servizi come gli asili nido. E purché I centri per l’impiego funzionino. Purtroppo siamo molto carenti sul piano delle politiche attive per l’occupazione e quindi tendiamo a privilegiare soluzioni assistenziali, come, da ultimo, rischia di essere il reddito di cittadinanza.
Donne e mercato del lavoro: dove un asilo nido costa 600 euro, e la vita è cara, per esempio in una grande città, quanto è vantaggioso per una donna lavorare per uno stipendio da 1000 euro al mese?
Al secondo figlio succede quasi sempre che una donna che lavora lasci il proprio posto, perché non riesce a gestire i due figli da sola, né la famiglia può permettersi il sostegno di asili e babysitter. La nostra incapacità di concettualizzare come problematici i primi anni di vita dei nostri figli deriva dal fatto che non pensiamo alla nostra vita nel complesso, ma ci concentriamo sugli anni centrali, su lavoro e previdenza. Ma le disuguaglianze, purtroppo, iniziano nella prima infanzia, quando i genitori non possono permettersi l’asilo, e quindi obbligano il bambino ad avere un ambiente socialmente meno stimolante. Tali differenze si amplificano crescendo: bambini con una famiglia abbiente alle spalle possono accedere a tantissime esperienze formative, sport, musica, viaggi, mentre chi cresce in ambienti culturalmente poveri non ha le stesse occasioni di apprendimento. In più, in Italia è ancora alquanto diffusa l’idea che I servizi di cura (di bambini e di persone non autosufficienti) possano tranquillamente essere svolti dalle donne, il cui lavoro è ancora troppo spesso considerato completare a quello del marito/compagno, non come valore in sé.
Il gruppo riformista è, in Italia, in forte ritirata, a livello politico e di opinione. C’è ancora un nucleo di riformismo, e come si coltiva? È possibile tornare a vedere positivamente il futuro come sogno comune?
Non abbiamo più partiti ma movimenti, alla cui testa c’è un “capo politico” che si stabilisce come debbono votare I parlamentari, non un leader che disegna strategie per il Paese. Una differenza rilevante, perché un leader di partito ha invece un compito chiaro: guidare verso il futuro, non immediato, ma almeno a medio termine. Il riformismo è guida del Paese verso un futuro migliore, ben consapevoli che nessuno ha la bacchetta magica e che chiunque può commettere errori. Credo però che la visione possa essere un po’ meno negativa di quanto suggerito dalle sue parole: nelle mie ultime esperienze, in occasione della presentazione del mio nuovo libro (Chi ha paura delle riforme: Illusioni, luoghi comuni e verità sulle pensioni), ho avuto modo di incontrare l’Italia migliore, costituita da migliaia di associazioni culturali dinamiche e aperte, composte da persone che non sono rassegnate, che non si accontentano degli slogan, che intuiscono la complessità del mondo e reagiscono di fronte a governanti interessati a mostrare I muscoli più che a trovare soluzioni praticabili e sostenibili. Il riformismo implica investimento sociale: le riforme non sono fatte per punire le persone, si rinuncia a qualcosa oggi, per esempio risorse finanziarie, per avere un futuro migliore domani; in tale ottica, e consapevoli che nessuna legge nasce perfetta, dobbiamo accoglierle con apertura e comprensione.
Lei è stata Ministro in un Governo in carica in un momento incandescente nella storia degli ultimi 20 anni del Paese, e il Paese si è salvato proprio grazie a quel Governo e alle riforme che ha portato. Mettere in piedi quelle riforme ha avuto un costo politico e – in alcuni casi – personale, ma la storia sembra dirci che politiche di medio-lungo termine hanno sempre bisogno di un Governo tecnico, soprattutto in un mondo in cui la partecipazione politica diventa 24/7 e i leader politici parlano – twittano – direttamente con il proprio elettorato. E’ davvero così?
Oggi la politica è schiacciata sul presente, fatto di scadenze elettorali sempre prossime e di politici propensi a dire agli elettori quello che vogliono sentirsi dire. Questo fenomeno dimostra una mancanza di coraggio: agli elettori bisogna dire la verità, e affermare – per esempio – che in una situazione di riduzione del reddito complessivo, tenere integra la fetta di qualcuno vuol dire sottrarla a qualcun altro. Il punto è che i politici sanno – in realtà – cosa bisogna fare. Pensiamo alla situazione attuale: i membri di questo governo sanno che le infrastrutture vanno fatte, ma hanno paura che i cittadini si sentano traditi da promesse strumentalmente fatte e quindi di non essere rieletti alla prossima elezione.
Il rimedio non può che essere di raccontare ai cittadini le cose in maniera onesta, senza inganni, senza voler creare illusioni, evitando il mito dell’uomo solo al comando che risolve i problemi di tutti, o la facile scappatoia del capro espiatorio responsabile di tutti i nostri mali, e spiegare che c’è una complessità nella quale siamo tutti immersi e che va affrontata con coraggio, lungimiranza e onestà senza la pretesa di una bacchetta magica, che nessuno possiede.