Leonardo Stiz
Che legame c’è tra deficit, democrazia e giovani? Mettiamo un politico o un amministratore che progetti iniziative che piacciono ai suoi elettori. Mettiamo un numero limitato di risorse a disposizione che, purtroppo, come quasi sempre accade, non bastano. Mettiamo la possibilità di prenderne altre in prestito, indebitandosi, con l’obbligo di restituirle dopo 30 anni. Ecco fatto: ora ci sono abbastanza risorse e le iniziative si fanno, chi le ha proposte incassa il consenso dei destinatari. Poi passano 30 anni e anche il politico e l’amministratore nuovi arrivati vorranno fare qualcosa. Ma c’è il debito da pagare, le risorse a disposizione, già poche, diventano ancora meno e non si potrà fare più quello che si poteva fare una volta. E così, chi ha fatto il deficit ha incassato il consenso, ha scaricato la patata bollente su chi è venuto 30 anni dopo e si è sottratto al giudizio politico sui costi delle proprie azioni. Chi viene dopo, invece, resta con la patata bollente in mano, si prende le critiche e non potrà dare alle nuove generazioni quello che era stato concesso prima.
Il pareggio di bilancio delle pubbliche amministrazioni non è solo un principio contabile, ma anche di democrazia. Significa essere responsabili, di fronte ai propri elettori, dell’utilizzo delle risorse pubbliche e del benessere delle generazioni future. Si sa però che siamo un Paese dal debito (pubblico) facile, che non si impressiona gran ché di fronte alle prospettazioni delle conseguenze funeste di troppo debito, ma che si offende subito se qualcuno mette in dubbio la democraticità di alcuni aspetti delle relazioni tra politici e cittadini. Fa quindi un certo effetto leggere che la Corte Costituzionale, a tratti molto attenta a non stravolgere gli equilibri sottesi alle dinamiche delle istituzioni, ha evidenziato in maniera esplicita la relazione tutt’altro che positiva tra deficit, opportunità per i giovani e rappresentanza democratica.
Un po’ di contesto: la sentenza numero 18 del 2019 ha dichiarato incostituzionale una norma che permetteva agli enti locali con bilanci strutturalmente deficitari, nel contesto delle procedure per prevenire il loro dissesto e riequilibrarne le finanze, di ricorrere (ancora) al deficit per gestire la spesa corrente, concedendo un tempo lunghissimo (30 anni) per il rientro di tale debito, ben oltre il ciclo di bilancio triennale. Questo, in primis, violerebbe la “regola aurea” prevista dall’art. 119 della Costituzione: Comuni, Province e Regioni possono ricorrere all’indebitamento solo per finanziare gli investimenti, in modo da determinare un equilibrio tra i costi e i benefici per la collettività. Ma, ancor più interessante, la Corte ha osservato che indebitarsi con un tempo di rientro così lungo, durante il quale sarebbero consentite spese correnti oltre le risorse effettivamente disponibili, graverebbe “in modo ingiusto e illogico sulle generazioni future”. Non solo: sarebbe leso anche il principio di rappresentanza democratica, perché la responsabilità degli amministratori che hanno provocato il deficit “sarebbe stemperata per un lunghissimo arco generazionale”. La Corte, osservate bene le parole, parla di “oblio” e “immunità” a favore dei responsabili.
Sono lo stesso oblio e la stessa immunità che oggi esistono nei confronti di tutta la classe politica che, negli scorsi decenni, ha sperperato le risorse dello Stato con spese improduttive fatte a debito, senza investimenti produttivi dei cui frutti oggi possiamo godere. Fa rabbia pensare che ci troviamo in un Paese insostenibile, per i giovani di oggi e per gli anziani del futuro, per colpa di persone che non abbiamo modo di inchiodare alle loro responsabilità. Abbiamo un debito pubblico tra i più alti al mondo ma le nostre infrastrutture crollano, la digitalizzazione è lenta, l’università è senza soldi e il territorio è dissestato, solo per dirne alcune.
Il principio generale è: bisogna spendere le risorse pubbliche a beneficio di chi c’è adesso, ma in modo che ce ne siano o che comunque ne vengano create almeno altrettante per chi verrà dopo. Altrimenti il Paese, prima o poi, morirà. Peccato che il principio enunciato dalla Corte, così come la “regola aurea” dell’art. 119 della Costituzione, valgano solo per gli enti locali. Per lo Stato centrale la musica cambia, come suggerisce l’art. 81: “Il ricorso all’indebitamento è consentito solo al fine di considerare gli effetti del ciclo economico e, previa autorizzazione delle Camere adottata a maggioranza assoluta dei rispettivi componenti, al verificarsi di eventi eccezionali”. Una regola molto più lasca, in fondo lo Stato è sovrano e decide il Parlamento in base alle necessità dell’indirizzo politico, a patto che ogni legge che preveda una spesa indichi le risorse per farvi fronte. E così, nonostante i principi messi nero su bianco anche dalla Corte Costituzionale, sono possibili misure costose e improduttive come quota 100 e reddito di cittadinanza.
Quanto detto deve però far riflettere, perché i principi di equità generazionale e di rappresentanza democratica, che garantiscono contro la spesa in deficit degli enti locali, vengono resi nulli se poi lo Stato centrale sistematicamente non li considera. E’ quindi necessario farli valere di fronte a chi ha responsabilità di governo, è tempo di creare una domanda politica di riforme e misure che tutelino anche i diritti delle generazioni più giovani e di quelle future. Certe leggi non piovono dall’alto, la politica spesso assicura tutele laddove conviene, ossia a coloro che, in cambio, promettono sostegno. Sarebbero pronti i giovani a votare compatti per qualcuno che si impegni di ristabilire equità tra le generazioni?