MillennialsMacron vende 300 Airbus a Xi, noi le arance. La differenza tra la realpolitik francese e quella italiana

Aldilà dei proclami, cosa c’è di concreto negli accordi firmati dal governo italiano durante la visita del Presidente Cinese? di Filippo Lubrano 300 aerei, 30 miliardi di euro. Ecco cos’ha por...

Aldilà dei proclami, cosa c’è di concreto negli accordi firmati dal governo italiano durante la visita del Presidente Cinese?

di Filippo Lubrano

300 aerei, 30 miliardi di euro. Ecco cos’ha portato a casa Macron nelle 24 ore spese da Xi Jinping a Parigi. 30 miliardi di euro (più altri 10 di collaterali…): il doppio del totale del nostro export totale annuo alla Cina. Il tutto, senza firmare nessun riconoscimento formale della Belt and Road Initiative. Da un punto di vista meramente commerciale, scevro da giudizi etici e politici: un capolavoro.

Cos’è avvenuto invece durante la visita di Xi nel Belpaese, tra Roma e Palermo? Qualcosa di un po’ diverso. Innanzitutto, abbiamo messo nero su bianco di essere il primo Paese del G7 a riconoscere la Belt and Road Initiative, facendo indispettire mezzo mondo. Per cosa in cambio? Non nulla, certamente, ma sicuramente meno di quanto sarebbe stato politicamente possibile fare, con un governo più coeso.

Non è il caso di analizzare qui tutti i punti siglati nel Memorandum e nei suoi corollari: potete leggerli per esteso qui.

Ci sono anche alcuni spunti interessanti, semi di potenziali collaborazioni proficue.

Quello che ci preme sottolineare qui è il diverso peso politico di chi si pone come interlocutore alla pari con il gigante cinese – la Francia -, e chi no – noi. Quando il dottor Geraci insomma afferma che “per una volta” siamo noi i pionieri, e gli altri ci seguiranno o ci criticano perché sono invidiosi della nostra leadership illuminata, mente sapendo di mentire: da conoscitore della Cina qual è, non può non sapere che gli accordi per i cinesi sono fatti per inquadrare un contesto normativo, ma non vengono mai applicati alla lettera. Voglio dire, dopotutto, si definiscono ancora un Paese ad economia comunista, sebbene “con caratteristiche cinesi”. Un po’ di lasco nelle loro definizioni pare chiaro ci sia.

La guida di tutto il negoziato è stata interamente a tinte gialle: Salvini è arrivato lungo, troppo impegnato a berciare contro i barconi e gli immigrati. Un regalo che potrebbe costare caro a lui, e a tutto il Paese. La Lega, che si è guadagnata in questo anno scarso di governo i gradi di “quelli competenti”, che fanno le cose a scapito dei 5 stelle in eterna confusione, qui è stata tagliata completamente fuori dai giochi.

Di Maio parla di contratti per 2,5 miliardi, potenzialmente per 20. Sono le stime a cui ci hanno già abituati i Cinque Stelle in campagna elettorale: basate su assunzioni traballanti e analisi di mercato dopate – ad hoc, o per incompetenza è un giudizio politico che lascio al lettore.

Si parla di un mercato “potenziale” di 600 milioni di clienti in Cina: qualcuno spieghi però a Di Maio & Co. che il “comunismo” alla cinese prevede forse sì dei monopoli di stato, ma non di stato italiano. Specie se stiamo parlando di arance, con tutto il rispetto.

Dei 29 accordi siglati, solo 10 sono meramente commerciali. Tra i 19 istituzionali, spicca invece la restituzione tout-court di 796 reperti archeologici cinesi attualmente in Italia, e che faranno ritorno a Pechino – arridatece la Gioconda, urlavamo nell’estate del 2006, e guarda come ci siamo ridotti. In cambio di cosa? Di nulla, evidentemente. Interessante anche come per la carne suina e i semi bovini il protocollo d’intesa preveda un monitoraggio dei prodotti italiani verso la Cina, in maniera unilaterale, e non viceversa: eppure, la Sars non proveniva certo da Domodossola, così come la recente peste suina che sta creando il panico sul mercato dell’Impero di Mezzo non è targata Catanzaro.

Gli unici contratti commerciali significativi per la nostra parte sono state firmate dai soliti colossi: Ansaldo (partecipata già al 40% dai cinesi, ops), Eni, Enel. Chi insomma con la Cina ha fa già affari da decenni e non necessitava certo dell’endorsement di un generico MoU per continuare a farlo.

Come sarà la piattaforma “Italian style” sul sito di Suning è ancora da capire – dubito comparirà comunque una felpa Dolce & Gabbana – ma ad ogni modo era presumibile che dato che possiede l’Inter, un po’ di merchandising tricolore, oltre che nerazzurro, in Cina ci sarebbe arrivato lo stesso.

In sostanza: tanto rumore per nulla. Almeno per il lato italico. Xi torna invece a Pechino con l’avvallo di una potenza mondiale (per quanto, staremo a vederlo) e lo scalpo di Trieste da vendere all’opinione pubblica per ribaltare definitivamente la narrazione della Via della Seta.

L’era delle umiliazioni subite è davvero finita: peccato che quelle inflitte comincino proprio da noi, incluso il simpatico siparietto che ha visto protagonista, suo malgrado, la giornalista Giulia Pompili, alla faccia del sovranismo.

E a che prezzo abbiamo venduto la nostra pellaccia? Poco più che gratis.

Sì, potevamo gestire indubbiamente il dossier meglio.

Filippo Lubrano

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