Homo sumIl primo maggio sia la festa dei lavoratori, non del precariato e dello sfruttamento

Con una minor tutela dei diritti sociali delle fasce più deboli, diseguaglianze e clientelismo rischiano di incrementare

di Francesco CariniHomo Sum

“Sì, ho da dire che sono innocente. In tutta la mia vita non ho mai rubato, non ho mai ammazzato. Non ho mai versato sangue umano, io. Ho combattuto per eliminare il delitto, primo fra tutti: lo sfruttamento dell’uomo da parte dell’uomo […]”. Bartolomeo Vanzetti, interpretato da Gian Maria Volonté, in Sacco e Vanzetti (1971), di Giuliano Montaldo

Se un italiano pensa al Primo maggio, la mente dovrebbe andare alla Strage di Portella della Ginestra del 1947, quando 11 persone (fra cui tre minorenni) rimasero uccise e altre decine furono gravemente ferite solo per una colpa: quella di andare a manifestare per i propri diritti e contro il latifondismo, solo formalmente abolito.
Le vittime erano contadini siciliani, che chiedevano di poter occupare le terre, spinti dalla disperazione e al contempo dal sogno di una vita migliore, non una sopravvivenza fatta di soprusi dove la mafia, attraverso i campieri e i gabelloti, è stata la sorvegliante di un potere sedimentato nel tempo nelle mani di pochi che controllavano terre (lasciate non di rado incolte) e ricchezze, riducendo i braccianti in stato di semi-schiavitù, senza tutele e facendo passare lo sfruttamento come un dono, in un contesto dove non c’erano molte alternative, a parte emigrare.
Così, attraverso la strage di Portella della Ginestra, si materializzò il più classico esempio di terrorismo mafioso in grado di spaventare quell’elettorato realmente spostato a sinistra, che chiedeva giustizia e riforme sociali (non mi soffermerò in questo articolo sul contesto storico politico e sull’affaire Salvatore Giuliano, perché ci sarebbe bisogno di ben altro spazio per trattarli adeguatamente).

A distanza di più di 70 anni, l’economia è cambiata (anche se si assiste a un parziale ritorno all’agricoltura fra i giovani) e le condizioni generali di vita sono migliorate, ma la povertà e la precarietà si sono andate progressivamente istituzionalizzando in tutta Italia, ridiventando la norma. Davanti a studi, come quello dell’antropologa lettone Vieda Skultans, (riportato nel saggio Illusioni e violenza della diagnosi psichiatrica del prof. Beneduce) in cui si mettono in correlazione gli effetti della mancata sicurezza economica sulla salute dei cittadini, protestare civilmente alfine di far valere i propri diritti di essere umano, prima che di lavoratore, è quasi diventato un atto fuori moda. E questo non è un problema di oggi, ma iniziato tempo addietro, con i giovani definiti qualche anno fa pubblicamente choosy e bamboccioni, quasi viziati nel non accettare condizioni lavorative e paghe misere, rispetto agli standard offerti da altri paesi occidentali.

Produttività, efficienza e consumatore sono i vocaboli che stanno sostituendo quello di umanità e di persona. Ma non è solo questo il problema, perché la graduale destrutturazione della macchina dei diritti sociali, frutto di decenni di lotte e battaglie di civiltà, ha permesso e permette lo spostamento del potere reale, non di quello apparente, nelle mani di pochi, rischiando sempre più di trasformare i diritti in concessioni. Per citare le parole del libro Il ritorno del principe (di Saverio Lodato e Roberto Scarpinato), si assiste alla presenza di una sorta di: «oligarchia travestita da democrazia», in cui, come si legge nel libro, alcuni potenti, tramite il rapporto con la società e parte della classe politica, puntano a: «mantenere o migliorare le proprie posizioni, secondo la legge ferrea dell’autoconservazione delle élite». Il senso del discorso fatto dal magistrato palermitano è molto più amplio e sviscerato all’interno del sopracitato volume, dove si prendono in considerazione criminalità, corruzione e storia, ma è interessante per la comprensione di ciò che accade in Italia e in parte dell’Europa. Nel primo capitolo si parla proprio di: «neofeudalesimo italiano», nel quale, si assiste ad un potenziale ritorno ad una epoca pre-moderna, come ad una: «società di sudditi, di padrini e padroni con piccole borghesie e corporazioni artigiane al loro servizio», in cui:

«[…] L’abitudine all’obbedienza acritica al potente, il servilismo, l’identificazione dell’ordine esistente con quello naturale e divino e quindi la rassegnazione fatalistica erano la normalità».

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