Intervista al giornalista Alberto Magnani sul suo nuovo libro “Gioventù Sprecata – Perché l’Italia ha fallito sui giovani”, Castelvecchi Editore, 2019.
Con la penna abile e scrupolosa di chi scrive da anni sulla carta rosa di questioni economiche e sociali, Alberto Magnani, giornalista ventinovenne de «Il Sole 24 Ore», ha condotto un’operazione chirurgica lungo la “questione giovanile italiana” scrivendo “Gioventù sprecata – Perché l’Italia ha fallito sui giovani”, Castelvecchi Editore, 2019. Il tema non è dei più digeribili, anche perché a tratti non lascia molto scampo all’evidenza: essere giovani al giorno d’oggi in Italia non è proprio un bell’affare.
Abbiamo pensato di affidarci alle competenze acquisite da Alberto Magnani per fare un po’ di chiarezza sul tema giovanile, senza mezzi termini o frasi fatte. Nel suo primo libro, Alberto compie un piano-sequenza di ben 115 pagine con l’obiettivo, certo ambizioso, di riprodurre fedelmente il nostro universo giovanile soffermandosi soprattutto sui mali che oggi più lo affliggono e ne mettono quasi in discussione la sua stessa conservazione per gli anni a venire.
Nell’intervista che segue abbiamo chiesto all’autore di Gioventù sprecata” di raccontarci della nostra questione generazionale cercando di inquadrare il fenomeno di cui parla, le ragioni per cui ha sentito impellente questa analisi, anche sul lato autobiografico, e le proprie impressioni su come ribaltare l’apparente ineluttabilità della sua previsione sulle conseguenze di questi tempi.
Alberto, chi sono allora questi “giovani italiani” di cui parli? Giusto qualche coordinata per iniziare.
È una categoria abbastanza estesa, ormai, anche perché l’età giovanile si sta protraendo oltre i suoi limiti naturali “grazie” a un’instabilità che impedisce il salto all’età adulta. Per semplificare direi che il libro racconta prioritariamente gli under 35, ma l’asticella può alzarsi o abbassarsi a seconda dei casi: i 19enni che si affacciano sull’università, i neolaureati straniti dall’accoglienza tutt’altro che calorosa del mercato del lavoro, i 30enni in balìa del precariato e di un sistema economico che non riesce a coltivarli… In generale, si parla delle nuove generazioni che cercano di affermarsi e dare il cambio a chi le ha precedute. Al momento senza successo.
C’era forse un modo per scrivere lo stesso libro in senso più ottimista? Si intende, senza imbrogliare sui dati.
Forse lo spunto per il titolo di un sequel potrebbe essere “gioventù ostinata”. Nonostante le avversità che cerco di descrivere, i giovani italiani continuano a raggiungere risultati di tutto pregio negli ambiti più svariati. Pensiamo ai nostri ricercatori ‘esportati’ all’estero, ai tanti casi positivi di aziende e startup tecnologiche guidate da giovani, all’impegno profuso in ambiti che vanno dalla cooperazione internazionale al contrasto al cambiamento climatico. In fondo una delle virtù incontestabili nel Dna italiano è la resilienza. Penso si applichi bene anche ai più giovani, con valore aggiunto di essere cresciuti in un contesto complesso e di essersi dovuti attrezzare con un grado superiore di qualifiche ed esperienze per ‘sopravvivere’ nel mercato internazionale.
I giovani sono in difficoltà, gli spazi e le prospettive sono quelle che sono, eppure nel tuo caso il percorso lavorativo ti è stato felice, peraltro in un settore da anni simbolo del precariato. Immaginiamo il duro lavoro e le incertezze che inevitabilmente ci sono state lungo questi tuoi anni di “gavetta”, ma come inquadri – al netto delle classiche virtù e fortuna – il tuo libro in relazione al percorso lavorativo di giovane che si fa strada in un moloch del giornalismo italiano come «Il Sole 24 Ore»?
Ogni libro parla indirettamente dell’autore (magari non nell’editoria iper-tecnica, ma chissà…). In questo caso il legame è anche più netto perché le varie riflessioni sono nate proprio nel mio lavoro come giornalista del Sole 24 Ore, dai primi anni di gavetta alla stabilità raggiunta oggi. Da un lato, toccare con mano il precariato spinge a comprendere meglio le dinamiche che si vanno a raccontare, evitando la freddezza di un’analisi solo numerica; dall’altro ho avuto il vantaggio e la fortuna di potermi confrontare “da giovane coi giovani”, descrivendo quello che percepivo nella mia quotidianità con un approccio a presa diretta. Una collega della Reuters, conosciuta in Africa durante un viaggio di lavoro, mi ha fatto notare che è impossibile occuparsi di un Continente simile quando si è troppo in là con gli anni, perché “non puoi capire una realtà così giovane se non sei giovane”. Vale lo stesso per i disagi delle nuove generazioni.
Quanto il fenomeno della migrazione giovanile (nella duplice accezione nord-sud e Italia-estero) è incentivato dalla narrativa sul “Paese per vecchi” e quanto è colpa invece del crudo stato delle cose? Scrivendo il libro, come ti sei posto rispetto al rischio di sostenere con le tue parole una percezione e una narrativa che rafforzassero il senso di insoddisfazione e di inevitabilità della migrazione giovanile italiana?
Incidono entrambi i fattori. Dovendo scegliere una proporzionalità, però, “temo” che lo stato oggettivo delle cose superi di gran lunga la narrazione che traspare. È vero che i media martellano un po’ troppo sull’ormai inflazionata fuga dei cervelli, il paese per vecchi e via di luoghi comuni. Però quei dati descrivono una realtà reale, evidente anche a chi si informa solo occasionalmente o non si informa affatto. Anzi, alle volte è sorprendente come interlocutori che ammettono o si vantano di non leggere giornali (abitudine ben diffusa, tra l’altro…) finiscano per offrirti informalmente le stesse analisi che avresti svolto in sedi ufficiali, magari con la pretesa di essere più profondo perché snoccioli dati Istat o sai spiegare le differenze fra inattività e disoccupazione.
Per quanto riguarda il rischio di esacerbare il pessimismo dei miei coetanei, è un dubbio inevitabile. L’obiettivo del libro, però, era quello di descrivere lo stato dell’arte, basandosi più sull’osservazione empirica che sugli atti di accusa o di rivendicazione generazionale. La speranza è che i fatti servano da stimolo e non da ulteriore motivo di disincanto.
Vorremmo ora farti qualche domanda più dettagliata. Ad esempio, ritieni che sia efficace la risposta della politica al problema della migrazione giovanile, tramite incentivi fiscali e regimi agevolati, volta a sostenere il ritorno del “capitale umano” in Italia? Da anni l’associazione Gruppocontroesodo.it, di cui anche tu parli nel libro, sta mappando e contribuendo positivamente all’analisi del fenomeno. Allo stesso tempo, dedichi un capitoletto a “Luca, Cristina e Tommaso” definiti come “vittime del controesodo”, ci spieghi meglio cosa intendi?
Il caso della legge sul controesodo immortala un vecchio vizio italiano: complicare quello che dovrebbe essere semplice, finendo per vanificare le migliori intenzioni. L’idea di uno sconto fiscale per i cervelli in rientro (per capirsi: se torno in Italia pago meno tasse) era quanto di più chiaro ed efficace si potesse concepire. Peccato che da allora il dispositivo originario sia stato modificato più volte, e in maniera contradditoria, creando sempre più confusione a sfavore dei talenti intenzionati al rimpatrio. Le “vittime” del controesodo sono professionisti che si sono affidati alla legge, salvo vederla cambiare da un momento all’altro e rischiando di perdere sia la propria posizione fuori dall’Italia sia i benefici che speravano – legittimamente – di ottenere aderendo al regime fiscale. L’incertezza del diritto è un altro motivo di freno per il sistema-Italia, ma sorvoliamo perché apriremmo un capitolo sterminato…
Migrazioni giovanili e disuguaglianze. Come si possono aiutare i più giovani, specie se privi di mezzi, a governare il fenomeno delle migrazioni senza aumentare le disuguaglianze con i giovani più fortunati? Accedere al master giusto all’estero non è per tutte le tasche e, per come stanno le cose, l’accesso alla formazione all’estero sembra rischiare di contribuire ad un aumento del divario tra generazioni, specie in caso di ritorno in Italia.
Bisognerebbe potenziare le opportunità di studio e formazione all’estero, rendendole più accessibili dal punto di vista strettamente economico e ‘conoscitivo’. Dal primo punto di vista intendo ovviamente aumentare borse di studio e detrazioni, oltre a sponsorizzare il più possibile esperienze come l’Erasmus (ma qui la cabina di regia è europea, non italiana). Dal secondo punto di vista, bisognerebbe far conoscere meglio le opportunità fuori dall’Italia anche a chi non è cresciuto in contesti famigliari propensi alle esperienze internazionali. Ci sono studenti che hanno la fortuna, ad esempio, di essere spediti in Inghilterra, Germania o Francia da quando sono alle scuole medie (o prima!) e proiettarsi così già a una dimensione europea. Altri che lo scoprono più tardi, pur avendo magari un potenziale pari o maggiore. Aumentando la conoscenza di queste chance, e magari abbassando un po’ i prezzi, si sbloccherebbe un ascensore sociale oggi ancora vincolato alle famiglie.
Nel tuo libro parli poi di come vi possa essere un collegamento tra l’insoddisfazione giovanile e fenomeni quali quello del populismo. Allo stesso tempo, però, proprio i più giovani sembrano aver imbracciato movimenti, specie di coscienza ambientale, che prendono atto dei rischi del c.d “Antropocene” e ne chiedono soluzioni ad ampia voce. Tra tutti, pensiamo al movimento inglese denominato “Extinction Rebellion”, senza scomodare Greta Thunberg. Forse la “Generazione sprecata” – come la chiami tu – sta avendo l’occasione di ripensare alle sue stesse priorità?
Da un lato senz’altro. La sensibilità delle nuove generazioni per il rispetto dell’ambiente, ad esempio, mostra un cambio di passo notevole rispetto alle generazioni precedenti e alle priorità imposte allora. Fino a qualche anno fa i “giovani” nostri coetanei consideravano l’automobile un segno di indipendenza, oggi si scende in piazza contro il cambiamento climatico e il ritardo della politica nell’interpretare l’emergenza. Sta funzionando? Direi che i 50 miliardi di euro messi sul piatto dalla Germania di Angela Merkel per una svolta green della sua industria ci dicono che qualcosa sta cambiando. La consapevolezza non sarà figlia solo dei climate strike, ma è comunque un’innovazione decisiva, figlia di un cambio di paradigma che non può lasciarci indifferenti. Attenzione, però. Nelle nuove generazioni si rischia di creare quella stessa polarizzazione sociale che abbiamo visto negli “adulti” fra città e province. Nelle città e negli ambienti metropolitani è più facile essere sensibili a impulsi liberal e progressisti come le lotte per l’ambiente o i diritti dei migranti. Nelle province meno, soprattutto se le condizioni economiche aggravano l’insofferenza per le cosiddette élite e l’ostilità antipartitica cavalcata in periodi diversi da Berlusconi, i Cinque stelle e Salvini. Senza scomodare l’esempio degli Usa, con il contrasto fra metropoli progressiste e deep America reazionaria, diamo un occhio in casa nostra. Solo quest’anno a Milano sfilavano 250mila persone per i porti aperti, mentre nel resto di Italia si assisteva a casi agghiaccianti di razzismo e violenze squadristiche. I giovani non sono un blocco monolitico, vanno calati nel proprio contesto.
Chiudiamo questa intervista parlando di lavoro. La «gig economy», l’economia basata su lavori temporanei, è ormai sotto i riflettori dei regolatori e del dibattito politico. Tuttavia, mostra a tratti un paradosso: i principali utilizzatori appartengono alla stessa generazione dei giovani che sono “imbrigliati” nei limiti, di tutela e di prospettive, di un modello economico ancora privo di sufficienti tutele, benché offra opportunità accessibili e una utile remunerazione di breve periodo. Ti domandiamo quindi se vedi possibile conciliare una simile frattura identitaria in una generazione tra lavoratori a rischio di deskilling e startuppari.
Visto che lo fanno anche testate non esattamente leniniste come Bloomberg e Economist, mi permetto di citare Marx. Forse, in questi casi, servirebbe un po’ di “coscienza di classe”. La gig economy è un’espressione di quelle disuguaglianze sociali che andrebbero contrastate, ad esempio chiedendo più diritti per i fattorini, non foraggiate ordinando un sushi a casa propria per evitarsi 200 metri a piedi. Poi l’inquadramento dei cosiddetti rider è una questione giuridica di grande complessità e non mi sognerei mai di attribuire ai clienti le colpe del legislatore. Ma si possono comunque dare dei segnali.
ROCCO STEFFENONI (intervista a cura di)