Non è banale, continuare a “pensare positivo”, come ci invita a fare Lorenzo Jovanotti, dopo il disastro della conferenza di Madrid. Il 2019 è stato un anno di grandi speranze, non solo per l’accresciuta sensibilità dell’opinione pubblica e dei media di tutto il mondo ai temi della sostenibilità, ma anche perché molti avvenimenti politici avevano fatto sperare che fossimo davvero alla vigilia di un “cambio di passo” verso lo sviluppo sostenibile, soprattutto per quanto riguarda l’emergenza climatica. Ai più alti livelli, il Climate action summit voluto dal segretario generale dell’Onu António Guterres il 23 settembre e il dibattito all’Assemblea generale del giorno successivo, quattro anni dopo il varo dell’Agenda 2030 sottoscritta da tutti i Paesi del mondo, avevano aperto il cuore alla speranza. In Europa, il rafforzamento dei movimenti attenti alle tematiche “verdi” nelle elezioni di giugno, le nette prese di posizione del nuovo Parlamento europeo e soprattutto il coraggioso programma della nuova commissione guidata da Ursula von der Leyen promettevano (e promettono) bene. E possiamo metterci anche l’Italia, dove il nuovo governo di Giuseppe Conte ha annunciato con decisione e coraggio un “green new deal”.
Per ora, invece si è mosso ben poco. La Cop 25 a presidenza cilena, trasferita in tutta fretta a Madrid per le grandi proteste sociali esplose a Santiago, non ha portato a nessuno dei risultati sperati. Il linguaggio diplomatico maschera il fallimento, ma lo stesso Guterres, in una lunga intervista alla Stampa già lunedì 16 (sia reso merito al direttore Maurizio Molinari per l’attenzione che il suo giornale dedica a questi temi e più in generale a quello che succede nel mondo) si è dichiarato non solo deluso dal vertice, ma ha detto che l’umanità “rischia di perdere la sfida per sopravvivere”.
Sullo stesso giornale proprio Jovanotti si è espresso con durezza:
“Oggi ci riempiamo la bocca di parole vuote tipo impatto zero senza sapere di che cosa parliamo (…) La cosiddetta decrescita felice è una cazzata come progetto politico per un Paese, diciamocelo. L’obiettivo è una crescita più giusta.”
E si potrebbe continuare con incertezze e delusioni: anche a livello europeo i Paesi e i gruppi parlamentari si spaccano sui proponimenti green, la stessa van der Leyen ha fatto fatica a varare la nuova commissione; in Italia, nonostante la buona volontà del presidente Conte e di alcuni ministri, la nuova legge di bilancio uscirà probabilmente dal Parlamento con un ridotto impatto “verde” e anche il cosiddetto “decreto ambiente” affronta temi importanti, ma con risultati inadeguati rispetto alle necessità di investimenti per mettere davvero l’Italia su un sentiero di sostenibilità .
Eppure mai come quest’anno la domanda di sviluppo sostenibile è esplosa in tutte le sue forme. Dai movimenti dei giovani, che hanno indotto l’autorevole Time magazine a mettere Greta Thunberg in copertina come persona dell’anno, al cambiamento di linguaggio di molti giornali, soprattutto nel mondo anglosassone, che hanno abbandonato la locuzione climate change per passare a climate emergency o climate crisis, fino alla pubblicità che fa apparire la sostenibilità come la principale preoccupazione degli inserzionisti. Anche i sondaggi in tutto il mondo ci dicono che la gente ha capito che qualcosa sta cambiando ed è preoccupata. L’ambiente non è il solo tema, perché tutto il mondo ribolle in manifestazioni per richiamare l’attenzione sulle incertezze del futuro. Tante famiglie si interrogano sulla qualità della vita che potranno avere i figli: i meravigliosi progressi delle tecnologie non garantiscono la giustizia sociale. Sulla spinta del movimento transumanista, molti scienziati cercano la formula per sconfiggere non più soltanto le malattie ma l’invecchiamento stesso. Nessuno però è in grado di dire quanti dei probabili undici miliardi di cittadini del duemilacento potrà permettersi una vita non solo lunghissima, ma anche sana e degna. Giustamente la “generazione zeta”, che ha ottime probabilità di arrivare al 2100, si preoccupa del suo futuro.
Cosa c’è che non funziona? L’oscuro disegno delle multinazionali che si dipingono di verde ma sottobanco fanno lobbying perché nulla cambi? Forse, in parte. La cecità dei politici alla Donald Trump, di chi guida grandi Stati come il Brasile, l’Australia, l’India (e chissà che farà a Gran Bretagna di Boris Johnson che dovrà ospitare la Cop 26 a Glasgow), per non parlare delle ambiguità dei cinesi che eludono gli impegni internazionali pur mostrandosi molto preoccupati per l’ambiente? Certo queste posizioni sono un freno al progresso verso la sostenibilità, ma sarebbero ben più deboli se gli altri Paesi, accanto a tante parole, non si dimostrassero così timidi e incerti nell’assumere nuovi impegni. Del resto come si fa ad accettare sacrifici in mancanza di una governance internazionale che ne garantisca l’equità, con un’Onu così pieno di buone intenzioni e di importanti iniziative multilaterali, ma di fatto ignorato negli aspetti positivi e descritto soltanto nei suoi difetti più critici, considerato come velleitario, burocratico e poco influente sulle grandi crisi internazionali?
Certamente quasi tutte le leadership politiche, con qualche lodevole eccezione, mancano di coraggio. Ma come diceva don Abbondio, il coraggio uno non se lo può dare, soprattutto se è un politico e sa che il risultato sarebbe di perdere le elezioni. Perché gli elettori cioè “il popolo”, come si ama dire oggi, è tanto preoccupato, ma ben poco disposto a rinunciare a qualcosa. Che ci pensino gli altri, a salvare il mondo: i governi, i grandi inquinatori, quelli che hanno eletto i vari Donald Trump. Io al massimo starò un po’ più attento a separare la spazzatura. E poi chissà, magari la tecnologia ci salverà, e nell’anno che verrà, come cantava Lucio Dalla, sarà tre volte Natale e festa il giorno. Finché la massa degli elettori la penserà così, i politici si guarderanno bene dal contraddirli.
Che fare dunque? C’è solo una strada: continuare a pensare positivo, perseguire l’utopia sostenibile, per ricordare il ben noto libro di Enrico Giovannini; combattere distopia e retrotopia: contrastare chi mette la testa nella sabbia per non pensare a un futuro che ritiene ormai compromesso e chi sogna di tornare a un mondo che ormai non esiste più.
È stato molto chiaro il presidente della Repubblica Sergio Mattarella nel suo intervento di ieri in occasione degli auguri di fine anno con i rappresentanti delle istituzioni, forze politiche e società civile. Ha preso spunto da una frase di Aldo Moro:
Anche se talvolta profondamente divisi… sappiamo di avere in comune, ciascuno per la propria strada, la possibilità e il dovere di andare più lontano e più in alto. Non è importante che pensiamo le stesse cose, invece è di straordinaria importanza la comune accettazione di essenziali ragioni di libertà, di rispetto e di dialogo.
Riportiamo ampiamente le parole del capo dello Stato che guardano al futuro.
Dalle parole di Moro si possono trarre due preziose indicazioni. La prima: chi riveste ruoli istituzionali deve avvertire la responsabilità di farlo in nome e per conto di tutti i cittadini. Aveva ben presente, Moro, il grave pericolo – purtroppo confermato dagli eventi successivi – che corre una società attraversata da lacerazioni profonde. Il bene comune è, appunto, bene di tutti, nessuno escluso. E chi amministra la cosa pubblica, chi è chiamato al compito di governare esprime, certo, gli orientamenti della maggioranza ma con il dovere di rispettare e garantire la libertà e i diritti degli altri, delle minoranze. Questa è l’essenza della democrazia, che richiede rispetto reciproco. Il rispetto rappresenta il più efficace antidoto all’intolleranza, foriera di conseguenze negative.
La seconda indicazione è quella di confrontarsi, con lungimiranza, sulle prospettive, sull’ampio orizzonte del futuro. A volte parliamo del futuro come di un domani lontano, cui non dedicare grande attenzione, oppure un domani che giungerà all’improvviso. Invece il futuro è già cominciato: scrive sulle pagine del nostro presente. Il futuro ci riguarda già oggi perché sta cambiando le nostre vite. Questa consapevolezza deve interpellare anche chi assume responsabilità politiche, istituzionali, di governo e chi, dall’opposizione, vi si confronta. Siamo pienamente dentro un cambiamento vorticoso e inedito. Il mondo in cui ci troviamo è diverso da quello che abbiamo conosciuto. Il modo in cui viviamo è differente. Cambiano le tecnologie, gli strumenti della nostra quotidianità, le nostre abitudini. I linguaggi, gli stili di vita, i lavori, i tempi con cui organizziamo le nostre giornate. Cambia l’ambiente in cui viviamo, il clima e, in conseguenza di questo, si aggravano gli effetti dei fenomeni naturali sui nostri territori. E’ forse questo uno degli aspetti più evidenti e più dirompenti del cambiamento. Oggi i mutamenti climatici fanno apparire fragili ed esposti i nostri territori. Insicure le popolazioni che si trovano ad affrontare le drammatiche conseguenze di calamità che sarebbe illusorio definire eccezionali, data la frequenza con la quale si ripetono. Quanto accade rilancia la necessità di definire una nuova idea di cura del territorio e della sua difesa, basata sulla prevenzione del rischio, e non centrata sulla fase dell’emergenza. Prevenire è un dovere.
Governare le trasformazioni è possibile. Anche perché disponiamo di strumenti nuovi ed efficaci. Quelli che – su un altro versante di novità – ci consegnano le rivoluzioni tecnologica e digitale, con riflessi in tutti gli ambiti della nostra vita. La cultura digitale moltiplica le opportunità, amplia le conoscenze. Ma troppo spesso l’accesso a queste possibilità, a queste conoscenze non è uguale per tutti. Il divario digitale è sempre più palesemente un fattore di profonde diseguaglianze. Cambiamenti e potenzialità nuove, di cui abbiamo via via preso coscienza in questi anni, avanzano molto più velocemente e incessantemente di quanto i nostri modelli tradizionali riescano a recepire. Mutamenti climatici e realtà digitale sono paradigmi di un tempo davvero inedito.
Il tradizionale e frequente augurio “felice anno nuovo” esprime il fascino e la suggestione del futuro. È paradossale – proiettati, come già siamo, nel domani – che venga contraddetto da spinte e aspirazioni di ritorno a condizioni del passato; a un passato impossibile perché rimosso dalla realtà. Una scelta siffatta condurrebbe inevitabilmente a un rapido e malinconico declino. Non ci si può limitare a subire gli eventi, lasciando a dinamiche incontrollate il compito di decidere come sarà il mondo nuovo. Tanto più è necessario questo impegno in quanto assistiamo all’emergere di energie nuove, di domande di tanti giovani che, in ogni parte del mondo, chiedono di far valere il loro diritto al futuro. Perché il loro futuro è oggi, qui, adesso.
Preparare il futuro, cominciando a viverlo, significa non ignorare quel che si trasforma attorno a noi. Alzare lo sguardo dalle emergenze del presente, non significa in alcun modo parlar d’altro. Significa, al contrario, indicare la cornice e un metodo in base ai quali adoperarsi per risolvere i tanti problemi, anche gravi, che ancora attendono soluzioni, guardando oltre il contingente e la mera ricerca di consenso.
È necessario inoltre misurarsi con la complessità dei problemi e delle situazioni, assumere decisioni, compiere delle scelte nei tempi richiesti dalla velocità delle trasformazioni in atto. Stabilire priorità e concentrare le risorse sui settori strategici per il nostro futuro, fare affidamento su competenze solide, tener conto degli effetti non soltanto immediati di quanto viene deciso.
Affrontare il futuro secondo le indicazioni di Mattarella significa anche partecipare, fare comunità. “Libertà è partecipazione”, se vogliamo citare anche il grande Giorgio Gaber in una canzone che oggi si sente riecheggiare spesso nelle piazze.
Ieri Guterres in una cena ristretta con Conte, alcuni grandi industriali ed esponenti di rilievo della società civile, si è complimentato con Giovannini per il lavoro dell’ASviS: “Abbiamo bisogno di moltiplicare queste eccellenze”.
Del resto l’assemblea dell’Alleanza di lunedì 16, di cui diamo oggi un resoconto, è stata una bellissima occasione di partecipazione. La cosa più bella, a mio parere, era lo spirito che la animava: molte decine di protagonisti impegnati sugli Obiettivi di sviluppo sostenibile, che guidano organizzazioni che raccolgono migliaia di volontari, con un effetto domino che si estende ormai a milioni di persone. È un grande risultato, ma non basta: certo l’ASviS non può salvare il mondo. Ma dieci, cento Alleanze, come auspica Guterres, forse sì. Se ciascuno di noi risponde all’etica della responsabilità di fronte all’intera umanità e al Pianeta, noi più anziani potremo dire ai nostri figli: è vero, abbiamo le nostre colpe per aver capito tardi che stavamo rovinando il Pianeta, ma quando lo abbiamo compreso, abbiamo fatto il possibile per trasmettervi un futuro sostenibile.
Riprendiamo la newsletter dopo l’Epifania. A proposito, vi chiedo, con un sorriso finale: in un mondo sostenibile senza carbone, che cosa porterà la Befana ai bambini cattivi? Ecco la mia risposta: in un mondo davvero sostenibile e giusto, non ci saranno più bambini cattivi.
Buone feste e buon anno.
di Donato Speroni, responsabile della redazione dell’ASviS.