Le nuvole sono state protagoniste e compagne delle giornate di lockdown. Le nuvole inattese e solitarie di Wordsworth, le nuvole libere di Pasolini, le nuvole di De Andre’ e quelle non invitate di Steve Kilbey. Le nuvole di Aristofane. Le nuvole. Che arrivavano e attraversavano il campo visivo, scorrendo come nei titoli di inizio e di fine dei programmi televisivi della Rai, negli anni Sessanta e Settanta.
Nuvole perfette o sfilacciate, senza piu’ scie di aerei ed inquinanti a bassa quota. Le nuvole hanno ripreso il loro posto nel mondo, alzando i cieli e gli orizzonti, come da tempo, come da secoli, come, forse, da quando fu deciso che bisognava guardare in basso, verso i libri e le leve della tecnologia. O verso questi schermi su cui premiamo le dita continuamente.
Le nuvole hanno riaperto gli orizzonti, portando la luce di un giugno minimalista o di un marzo senza fine, un tempo prono a sfociare in un autunno di ripresa, di battaglia o di ulteriore difesa. O un tempo di attesa di notizie buone, rassicuranti, a controcanto di mesi e mesi di bollettini di guerra, di morti e infetti, di terapie miracolose ma non troppo. E tempi di una disfatta della politica che non riesce ad immaginare un mondo nuovo, senza confini e con ancora troppa abbondanza di riti misterici. E dove rimane facile nascondere il proprio timore dietro mille altri confini, limiti, dietro le frontiere disegnate a tavolino, come se un virus o lo tsunami di una societa’ in subbuglio rispettassero le linee di demarcazione dei nostri atlanti o dei nostri trattati.
Come mai nella storia del mondo, abbiamo vissuto, in questi mesi, un’esperienza collettiva, similare, seppure nelle differenze di condizioni, di reclusione forzata per mesi, dentro le ‘bolle’ di quartiere, di famiglia, di condominio. Con il torace sospeso, come se dovesse ancora aspettare prima di tornare a respirare a pieni polmoni.
E, nonostante i provvedimenti tesi a far ripartire il mondo come era prima della pandemia (una pia illusione), siamo ancora tutti con Il fiato sospeso, ammezzato. Soprattutto quando si incontrano altri, gli occhi torvi quando uno si rende conto di essere l’unico con la mascherina in un supermercato. Parole urlate nel suono attutito della stoffa sul viso od attraverso muri di plexiglass che funzionano probabilmente come mitigante per le assicurazioni, ma non per un nemico invisibile, subdolo. Non il virus, ma il problema con gli altri.
La malattia, il Covid-19, ha introdotto un elemento di cambiamento, paradigmatico, leggeremo sempre piu’ nei prossimi mesi. Non tanto con i suoi fiumi in piena di dolore e di morti premature, le bare di Bergamo sui camion militari, le fosse comuni di Manaus e di New York, non con i milioni di lavori persi, in un vortice di vite e rate del mutuo sospese. Non con i miliardi persi dall’economia reale, con mercati finanziari che hanno continuato ad autopremiarsi, come se avessero valori di riferimento di un’altra dimensione, dove la pandemia non e’ mai iniziata.
Il virus ci ha messo di fronte a noi stessi, con l’effetto piu’ devastante, e lo vedremo solo nel tempo, in questa coagulazione della societa’ attorno a pochi e maledetti valori. Un coagulo di idee ed un rapido accumularsi di difese ancestrali, perche’, nell’assenza del divenire di questi mesi, in cui anche le stagioni sono diventate lentissime, senza mutazione se non quella del colore delle piante e di fioriture, il mondo ha dovuto ricostruire tutta una serie di barriere e di pregiudizi che pensavamo di poter eliminare con la globalizzazione dei consumi, con l’omologazione dei mezzi di comunicazione, ergo, della loro influenza nel quotidiano.
Il problema degli altri e’ diventato, giorno dopo giorno, sempre piu’ importante. La paura del contagio, la paura di dover soccombere, economicamente, etnicamente, a un mondo che, fino ad inizio del 2020, era ancora in fieri. Ed in pochi mesi ci siamo resi conto che tutti i processi erano accelerati. Sostituzione uomo/macchina, tranne che per quei lavori sottopagati ed essenziali, dei nostri medici, infermieri, autisti della delivery dei supermercati. Tutte le persone che ci hanno accolto, noi in coda per pochi minuti, loro in prima linea, spesso sorridenti e cortesi, di fronte ai negozi di beni essenziali.
E quel senso di inutilita’ di sviluppi immobiliari commerciali, dove un tempo la vita brulicava, la City di Londra, la zona dei grattacieli di Milano, ogni centro direzionale del pianeta, reso conchiglia vuota in cui riecheggiavano rumori di onde e di consigli di amministrazione. Unici guardiani, i portieri di notte, anche loro sospesi, controllori di un mondo in naftalina.
Eppure, nonostante tutta l’umanita’ che abbiamo potuto vedere, inclusa la nostra fragilita’, in queste decine di giornate passate con persone piu’ o meno amate accanto, persone piu’ o meno silenziose ed operose, giornate in cui abbiamo ammirato la pazienza di altri attorno a noi, ecco, gli ‘altri’ sono diventati sempre piu’ un problema.
Gli altri, i frugali, gli spendaccioni, i portatori sani, i bianchi, i neri, i gialli. Le mille paure che pensavamo di aver eliminato, gli immigrati lasciati morire nel mare, gli alberi non potati dei viali cittadini. Gli altri. I mostri dipinti dai populisti, gli altri, i cattivi che tengono le fila di un mondo senza piu’ corde da tirare. Un mondo dove i burattinai, probabilmente, hanno anche loro paura di ammalarsi, di soccombere prima alla paura dell’altro e, forse, dopo, alla malattia. Una malattia che ci racconta un’anima nascosta delle cose.
Un’anima che abbiamo provato a nascondere. Delle tensioni e delle decisioni che dovremo prendere, collettivamente, singolarmente. Perche’ il prossimo decennio sara’ quello decisivo, per tante battaglie, da quella contro il cambiamento climatico a quella per il rispetto dell’umano in tutti. A prescindere da idee, ideologie, colori della pelle, orientamento sessuale.
Il prossimo decennio sara’ il campo di una battaglia di noi contro i presunti altri, appena prima di rivelarci che, forse, quegli altri di cui abbiamo paura siamo proprio noi. Un’immagine deformata, od un esercito di doppleganger, di altri noi che abbiamo creato con tutti gli alias e i nickname nei social media. Nelle permutazioni dei nostri desideri. Una moltiplicazione schizofrenica e senza controllo, come i ‘rossi’ del film ‘Us’, di Tim Steele.
https://www.youtube.com/watch?v=hNCmb-4oXJA
E il senso di questa battaglia prossima ventura sta tutta nel volto sereno di Anderson Cooper, anchorman della CNN, in un suo editoriale di qualche settimana fa. I suoi occhi color gelo, diritti nelle pupille di tutti gli spettatori. Senza curarsi del teleprompter, dopo aver condannato la reazione di Trump al Covid-19, finisce con un deciso e mesto: ‘buonanotte, ora il vostro destino e’ nelle vostre mani’. You are on your own. Un luogo, our-own-land, dove, probabilmente, abbiamo difficolta’ ad ambientarci. Come nei salotti degli appartamenti o nelle carrozze delle metropolitane del pianeta, per chi doveva comunque andare a lavorare.
Ed allora dovremo decidere cosa fare di questo destino, ritrovato in noi stessi dall’incapacita’ della governance globale di dirci le parole buone e giuste. Un destino nuovo nelle nostre fragili mani. Cosa fare: abbandonarlo al vento, facendogli seguire i percorsi apparentemente casuali delle nuvole stupende di questo periodo pandemico, o usarlo, condividerlo, per trovare le linee di una nuova moralita’ moderna ed ancestrale assieme. Un’ourownland dove il peccato dell’altro non esiste piu’, perche’ misurato sulla nostra propria scandalosa esistenza e sullo stesso muoversi liquido di sentimenti, nuvole e flussi migratori.
E sara’ fine delle trasmissioni (https://www.youtube.com/watch?v=ykXKTO9NZpU) degli ultimi anta anni di societa’ in transizione, per lasciare spazio ad un ‘dopo’ dove pensare ‘a se stessi’ torni ad essere ‘pensare a tutti’. All’umano in ognuno di noi. Our own.
Un ritorno alla fiducia dell’umano ‘buono’ e non verso le fauci di quel mostro senza cuore che vediamo negli altri.
Soundtrack:
Garbo – Sotto questo cielo a novembre
https://www.youtube.com/watch?v=FluInhICoCk
Destroy all monsters -Bored