‘Cosa ti manca di piu’?’, mi chiede un amico, attraverso un video tremolante e pixellato che attraversa mezza Europa e sorvola il canale della Manica, ignaro di negoziazioni in corso su merluzzi e pesticidi. Il fragile equilibrio delle connessioni, la nostra ancora di salvezza in un mondo diventato un aggregato di tanti nuclei isolati, mi porta la stessa domanda, come un assillo, una specie di provocazione che poi, anche io, usero’ con qualcun’altro. Perche’ e’ la domanda che abbonda ma che ‘manca’ anche in questo periodo. Il freddo alle porte, notizie discordanti, vaccini, cure, ed intanto il numero dei morti sale. Il numero delle vittime indirette cresce. Malati di Covid, malati di altre malattie che non sono curati, persone senza lavoro, famiglie impoverite e negozi che chiudono, con volantini incollati alle vetrine che sembrano rinvii di aperture ma che, mano a mano che i giorni passano, si ingialliscono e diventano condanne all’oblio. Od al purgatorio dei crediti deteriorati.
Ed in tutto questo, cosa manca? Mancano i volti di quelli che sono scomparsi? Mancano i volti di quelli che non c’erano gia’ da tempo? Mancano i volti di quelli che ci sono ma che sono distanti, nel labirinto delle quarantene e dei coprifuoco?
Eppure, da qualche parte, ci siamo tutti. Ci siamo. Siamo nelle pieghe della storia, siamo immersi nelle nostre pagine, sui nostri fogli, tablet, ghirigori. Ci siamo, nelle memorie. Facciamo i compiti con i figli come se fosse la prima volta che ci accade di scontrarci con le radici quadrate, come se tutto fosse tornato in circolo.
Cosa mi manca? E rispondo al mio amico. Di tutto quello che vedo scivolare e tremare attorno, nelle foto sui social, nei rumori sulle chiamate di zoom, nelle memorie di questa crisi mirabile che disegnano lentamente un mondo parallelo in cui torniamo a vivere, mi manca stare a grotta. Sulle colline di Sommaia.
Quando eravamo bambini, il rituale di famiglia era di andare in una casa di campagna, con tutta la famiglia allargata, la domenica. Neanche venti minuti da casa, in quella grazia del contado appena fra Firenze e le Croci di Calenzano. E nelle giornate di vento, di tramontana, all’inizio dell’inverno o della primavera, quelle giornate fredde di sole dove tutto veniva spazzato via, pensieri cattivi, nuvole e il fumo del forno delle schiacciate del vicino di casa, ci si metteva contro un muro, quella che gli inglesi chiamano una ‘sun trap’, quel punto del muro dove non arrivavano le folate ma si percepiva a pieno il potere del sole. E non faceva freddo, non piu’. Ci si sedeva li, con qualcuno della mia famiglia e si chiaccherava. Magari tagliuzzando uno sterpo od un giunco. Ed eravamo al riparo da tutto, un punto di osservazione, spesso, sul mondo. Il muro a secco di pietre bianche decorate dai licheni. E, nella stagione giusta, piccoli fiori sospesi sul vuoto.
Mi manca quel momento in cui cirri di ogni gradazione di bianco e grigio attraversavano il cielo, metafore di tutte quelle tempeste sociali e politiche che, giovani noi degli anni Settanta, sentivamo echeggiare sui giornali e nei discorsi dei nostri genitori attorno al focolare o mentre camminavamo sulle strade sterrate.
Stare a grotta. Aspettare che la tempesta passasse, sapendo che alla fine il vento si sarebbe dovuto affrontare, per tornare verso la casa o la macchina.
E quello stare a grotta era diverso dal rintanarsi di questo periodo, con le strade vuote e le relazioni umane rese difficili, vischiose. Perche’ in quel momento era chiaro da cosa ci volevamo difendere e cosa volevamo. Il vento non ci sferzava e il sole era una fonte di vitamina D senza bisogno di integratori. Stavamo seduti li’, ammutoliti da quelle nuvole rapide. Fino a quando arrivava il tramonto od una voce di qualcuno dei grandi a chiamarci. O aspettavamo che tornassero i grandi dalla cima di Monte Morello, per dirci che da lassu’, in quelle giornate terse, si vedeva la neve dell’Abetone ed a volte il mare, attraverso un varco fra le montagne vicino a Montecatini. Se ne vedeva il riflesso al tramonto, come un miraggio di luce arancione.
Era uno stare a grotta paziente, sereno. Il calore del muretto, la luce che rendeva, mentre il sole scenda, ogni cipresso, ogni filo d’erba secca un’ombra della notte etrusca. Eravamo pazientemente preparando partenze, decolli, avventure future. In quel momento di pace che vorrei regalare alle mie figlie, a tutti i figli delle generazioni che stanno attraversando questa pandemia con molta piu’ pazienza e serenita’ di molti dei grandi.
Seduti a grotta, come le aquile della canzone di Battiato. Incapaci a camminare, ma incredibili a volare. Ecco, ho detto al mio amico, cosa mi manca di piu’. Ma torneremo, Sommaia, a sederci. Presto. O qui o in un altroquando dove ci saremo davvero tutti.
Soundtrack: Le aquile [Patriots 1980] – Franco Battiato – YouTube