Dopo la Tunisia l’Egitto. Non sappiamo ancora se le “rivoluzioni” mediorientali produrranno cambiamenti strutturali o cosmetici ritorni allo status quo ante, la democrazia o una serie di nuovi autoritarismi appena riconfigurati. Senza dubbio, però, il mondo arabo non sarà più quello conosciuto fino a oggi. Non solo perché le proteste potrebbero estendersi ad altri Paesi, come Giordania, Yemen, Algeria, Libia, ma anche e soprattutto perché gli ultimi 15 giorni hanno reso manifesta un’energia popolare nuova, rivelazione di un evidente scricchiolio delle fondamenta dei regimi autoritari arabi.
Molti di questi governi, arroccati nelle proprie logiche dispotiche e per lo più incapaci di dare una soluzione ai problemi endemici dell’area – diffusa povertà, elevata disoccupazione giovanile, corruzione a livello politico e istituzionale, carenze infrastrutturali che ostacolano lo sviluppo economico – sembrano essere giunti al termine del loro percorso storico. Un regime egiziano travolto dalle proteste, costretto a una dura repressione, al coprifuoco, ai militari in perenne stato d’assedio nelle strade è la testimonianza più grande di un tracollo regionale destinato, probabilmente, a prodursi comunque, domani o nel prossimo futuro. Se l’Egitto vive oggi questa crisi, nonostante gli sforzi compiuti da Mubarak negli ultimi anni – tramite la liberalizzazione del commercio estero, la modernizzazione industriale e vasti programmi di riforme che avrebbero, secondo dati internazionali, ridotto la disoccupazione dal 9,7% del 2010 al 7,3% del 2012 – tutto diventa possibile.
Probabilmente gli stati ricchi di materie prime come la Libia, i Paesi del Golfo e, in misura minore, l’Algeria, potrebbero avere risorse importanti – ossia la rendita fornita dagli idrocarburi – da mettere in campo. Ma rimane comunque difficile valutare se questi rentier state mantengano ancora oggi la capacità di “corrompere” la cittadinanza con gli ampi programmi di welfare, le sovvenzioni, i prezzi calmierati e le assunzioni nell’apparato statale che hanno garantito loro la sopravvivenza nel passato.
Nell’ultimo decennio, la retorica delle politiche statunitensi ed europee nell’area (basti ricordare i programmi dell’amministrazione Bush su “libertà e democrazia” in Medio Oriente tra il 2004-2006) è stata talvolta molto elevata. Tuttavia Stati Uniti e Paesi europei hanno finito sempre per favorire la stabilità pro-occidentale di questi regimi a scapito dell’avvio di reali processi di democratizzazione. Per decenni questi regimi hanno svolto la funzione di baluardi contro il comunismo, e poi, contro l’islamismo radicale. Un ruolo troppo rilevante per essere realmente messi in discussione con destabilizzanti richieste di apertura democratica. Mentre però le amministrazioni Bush e Obama non hanno rinunciato a una Freedom Agenda, che in qualche modo compensasse l’obbligata necessità di affari e relazioni stabili con questi governi, l’Unione Europea ha finito per abdicare a un ruolo propulsivo nell’area. La messa in sordina dell’originale politica euro-mediterranea delineata a Barcellona nel 1995 (che prevedeva l’aiuto allo sviluppo politico dei regimi arabi verso la democrazia) non è stata pareggiata dal varo dell’Unione per il Mediterraneo (UpM), rivelatasi fallimentare.
Quanto l’Egitto sia importante per l’Europa è testimoniato dal fatto che proprio il presidente egiziano Mubarak sia il copresidente dell’UpM. L’Egitto è, assieme all’Arabia Saudita, la chiave di volta degli equilibri del Medio Oriente. È anche l’unico Paese arabo ad aver riconosciuto lo Stato di Israele. D’altra parte l’Egitto è un Paese nel quale l’islamizzazione della popolazione è cresciuta e si è resa evidente anche nei costumi e nella società. L’ascesa dell’islamismo radicale causerebbe, all’interno del paese, un revival dello scontro religioso, come purtroppo testimoniano i recenti attentati ai danni della comunità copta. Sul piano internazionale, invece, produrrebbe uno squarcio politico dell’area mediterranea che darebbe fiato e prospettive ai movimenti islamisti più radicali e potrebbe quindi alimentare nuove minacce sia alla stabilità complessiva della regione che all’Europa.
Il ruolo dell’esercito e dei militari egiziani sarà determinante. Dal 1952, anno della rivoluzione dei giovani ufficiali liberi, giocano un ruolo fondamentale nel governo del paese. Mubarak è uno di loro, e rimane un leader carismatico difficilmente sostituibile, anche all’interno dell’establishment militare. La nomina a vicepresidente di Omar Suleiman, gradito agli Stati Uniti, sembrava il viatico a un rapido abbandono di Mubarak che però tarda a verificarsi. Questa situazione sta finendo per alimentare ulteriormente la protesta e potrebbe contribuire a estremizzare il confronto favorendo i Fratelli Musulmani: a loro volta privi di un chiaro leader che possa accentrare su di sé i consensi dell’opposizione. Per questo Obama pare aver abbandonato definitivamente il vecchio alleato.
In questo contesto neppure un “fronte democratico” pare avere validi nomi alternativi intorno ai quali coalizzarsi. Mohamed El Baradei, l’uomo sul quale si sono riposte le speranze dei media occidentali, non gode di grande popolarità in Egitto: per questo potrebbe rappresentare solamente una soluzione transitoria, soprattutto se fosse in grado di ottenere, da una parte, l’appoggio degli Stati Uniti, dall’altra quella della maggior parte dei movimenti politici all’opposizione. Tra questi, la Fratellanza Musulmana, pronta a dar segni di moderazione. Impresa assai ardua. In una prospettiva di più lungo termine, dopo la sostituzione di Mubarak, si potrebbe assistere al rinnovamento dello struttura dello stato: il potere dei militari potrebbe controbilanciare quello di partiti democratici e islamici moderati che riconoscano il ruolo dei primi come difensori della laicità dello Stato. Ne risulterebbe una formula di coabitazione dal delicato equilibrio, simile a quella dell’attuale Turchia.
Gli Stati Uniti si stanno preparando a una transizione da tempo. Come riportato in recentissimi cable pubblicati da Wikileakes, nonostante l’alleanza con Mubarak gli Usa hanno finanziato a più riprese il movimento di opposizione democratica in Egitto. L’agenzia Usa per lo sviluppo internazionale (Usaid), avrebbe finanziato – con 66,5 milioni di dollari per il 2008 e 75 milioni per il 2009 – i programmi egiziani per la democrazia. In questa crisi il Dipartimento di Stato e la Casa Bianca hanno emesso una serie di dichiarazioni forti a sostegno del popolo egiziano, comprensivi di richiami ai diritti e alla libertà di espressione, associazione e riunione. È curioso osservare che, come negli anni Cinquanta e Sessanta con il movimento di decolonizzazione, in questa crisi siano stati gli Usa a tenere posizioni più favorevoli al cambiamento mentre gli europei siano apparsi più titubanti, cercando poi di porvi rimedio con le tardive dichiarazioni dei rappresentanti Ue.
In realtà, l’attuale crisi dei Paesi arabi, come mai accaduto in passato, permette una piena sovrapposizione della retorica pro-stabilità e di quella pro-democrazia. La stabilità non può più essere perseguita al prezzo della democrazia. Le politiche di amicizia incondizionata con i regimi autocratici non saranno più perseguibili nei termini sin qui esercitati. Continuare queste politiche significherebbe favorire regimi in maggior parte sgraditi alle popolazioni. Ora l’Occidente lo sa chiaramente. Le proteste popolari in Tunisia ed Egitto, prive di una chiara direzione politica e di leadership (ma anche di connotati islamici radicali), hanno reso manifesto quanto oggi possa essere inutile, se non svantaggioso, invocare solamente stabilità (intendendola pro-occidentale): condizione attualmente raggiungibile con l’avvio di un processo di democratizzazione e di partecipazione popolare più ampia. Per questo motivo appoggiare la primavera araba vorrà dire avere speranze di arginare la minaccia islamica.
*ricercatore Ispi (Istituto per gli studi di politica internazionale)