Quanto costa salvare Dubai

Quanto costa salvare Dubai

DUBAI CITY. È l’ora della preghiera. Al Mall of Emirates, uno dei principali centri commerciali di Dubai, la voce del muezzin copre il brusio della folla e gli incessanti jingle degli spot pubblicitari, mentre sui mega schermi appesi a ogni ingresso viene ricordato alle donne straniere che canottiere e gonne troppo corte non sono gradite. Qualche chilometro più in là, proseguendo sulla Sheik Zayed Road, nella zona di Dubai Marina, quartiere di grattacieli abitato in prevalenza da occidentali e unico in città dove non ci siano moschee, potenti megafoni diffondono cinque volte al giorno, a tutto volume, l’Allah akbar (“Allah è grande”).

Accade ormai da qualche mese, ma sorprende ancora vedere il rapido cambiamento che sta vivendo l’unica città del Golfo dove sia concesso uno stile di vita occidentale. Eppure, dopo la crisi economica dello scorso anno e il salvataggio di Dubai dalla bancarotta grazie all’intervento dello sceicco Khalifa Al Nahayan, governatore di Abu Dhabi, l’influenza del vicino emirato comincia a farsi sentire anche nella vita di tutti i giorni. E con la velocità con la quale sono state sostituite le insegne stradali del grattacielo più alto del mondo che, nel giorno della sua inaugurazione, con sorpresa di tutti, si è chiamato Burj Khalifa e non più Burj Dubai, così lo sceicco di Abu Dhabi sta imponendo maggior rigore e un differente indirizzo politico ed economico alla famiglia Al Maktoum, che governa Dubai.

Mohamed Al Mansuri, fondatore dell’Associazione dei giuristi degli Emirati, aveva preannunciato già da qualche anno quello che sta accadendo. L’avvocato Al Mansuri si batte per i diritti umani del suo Paese, soprattutto in difesa dei lavoratori migranti del Sud Est asiatico, e nonostante sia stato arrestato diverse volte per avere contestato il Governo e abbia il divieto di parlare con i media locali, non smette di dire ciò che pensa. Da tempo, prigioniero negli Emirati perché privato del passaporto, critica la politica di Dubai, sostenendo che lo sceicco Al Maktoum abbia sì creato una modernissima metropoli in mezzo al nulla del deserto, ma trasformandola di fatto in una creditopoli: «Dubai è indebitata per il 107% del suo Pil – spiega – e se non fosse intervenuta Abu Dhabi sarebbe già fallita da tempo, non solo in occasione dell’ultima crisi dello scorso anno. Ma tutto ciò ha un prezzo: chi comanda, ora, è Abu Dhabi, una città molto più conservatrice rispetto a Dubai. Non c’è da stupirsi, dunque, se le libertà sono e saranno limitate, più di quanto già non lo siano».

Sulla stampa locale è vietato parlare male di Dubai e del Paese: ogni notizia che possa danneggiarne l’immagine e, ancor prima, l’economia viene censurata. Così si leggono quotidianamente dati incoraggianti, anche se la realtà è ben diversa. «Le banche e gli investimenti – spiega un operatore finanziario della sede di Dubai della Swiss Bank che preferisce restare anonimo – si stanno spostando tutti ad Abu Dhabi. Il problema è che Dubai ha delle ottime strategie di crescita, ma non è in grado di mantenere un tasso medio di crescita costante, secondo il concetto che abbiamo noi in Europa. Così continuano a costruire, a comprare e poi ancora a costruire, invece di finire ciò che hanno iniziato e poi valutare se fare altri investimenti. Qui c’è una scarsa conoscenza di azioni e derivati e si preferisce investire in immobili e materie prime, come oro e petrolio. Era così prima della crisi, e ora lo è ancora di più». Secondo la società di consulenza Cluttons, nei prossimi due anni entreranno nel mercato tra le 35.000 e le 50.000 nuove abitazioni, causando un ulteriore squilibrio tra offerta e reale domanda di immobili. «Penso che il mercato – prosegue l’operatore della Swiss Bank – non tornerà più quello di una volta e i grossi investimenti non arriveranno più a Dubai. Qui non si è imparato molto dalla crisi. Che senso hanno i 15 nuovi hotel che stanno costruendo sulla Palma? Chi li potrà mai riempire? Si aspettano forse che metà continente indiano venga in vacanza a Dubai? Un altro esempio, il nuovo aeroporto in costruzione a Jebel Ali: sulla carta deve diventare il più grande hub del mondo e avere un traffico di 160 milioni di passeggeri l’anno, ma ancora una volta il progetto è troppo ambizioso e a causa della mancanza di soldi i lavori vanno a rilento. Tutto mentre la compagnia aerea Emirates acquista ogni mese un nuovo Airbus nonostante stia andando malissimo».

Eppure i dati ufficiali nascondono le difficoltà e, soprattutto, i debiti che continuano ad affliggere il Dubai International Capital, braccio d’investimento delle Dubai Holding, di proprietà dello Stato. Lo sceicco ha rassicurato, in una recente conferenza stampa, che per i primi otto mesi del 2010 il commercio è aumentato del 18% rispetto allo stesso periodo dello scorso anno, il numero di container transitati dal porto di Jebel Ali entro la fine di settembre è aumentato del dieci per cento rispetto agli stessi nove mesi del 2009 e il trasporto aereo di merci è in crescita del 22 per cento.

Anche il turismo sta andando bene, secondo le statistiche ufficiali: il numero di visitatori è passato da 5,6 milioni nel 2009 a sei milioni quest’anno e 23 nuovi alberghi sono stati completati negli ultimi 12 mesi. I piani per saldare i debiti, però, non sono ancora chiari. Il Dubai International Capital ha diffuso di recente un comunicato nel quale dichiara di avere raggiunto un accordo con i principali creditori per ristrutturare 2,5 miliardi di dollari di debito: darà altri sei anni per ripagare 2 miliardi di dollari e altri quattro anni per gli altri 500 milioni. Ma è grazie alla solidità e al supporto di Abu Dhabi che il Governo di Dubai sta cercando nuovi partner commerciali. Dopo la missione del Sistema Paese Italia negli Emirati Arabi Uniti, che si è svolta lo scorso novembre, l’obiettivo è di aumentare gli scambi anche con l’Italia. Attualmente, secondo i numeri presentati ad Abu Dhabi, l’interscambio commerciale tra il nostro Paese e gli Emirati è di circa 2 miliardi di euro nei primi 6 mesi del 2010, ma l’impegno è di aumentare le opportunità per le aziende italiane in diversi settori: infrastrutture, turismo, energia e beni di consumo. Tendenza confermata anche dal Consolato italiano di Dubai che sottolinea come la comunità italiana stia aumentando, proprio per i nuovi investimenti che legano i due Paesi: dai circa 1500 cittadini italiani residenti a Dubai nel 2008, si è arrivati ora a circa 2000.

La maggiore influenza di Abu Dhabi comporta anche un altro grosso cambiamento, che tocca i delicati equilibri geopolitici della penisola arabica e quelli tra Oriente e Occidente. Abu Dhabi, infatti, ha sempre privilegiato i rapporti con l’Arabia Saudita e con l’Europa, Italia compresa. I tre fondi sovrani di Abu Dhabi hanno diversi investimenti nel nostro Paese: l’Adia (Abu Dhabi Investment Authority), creato nel 1979 grazie alle rendite del petrolio e considerato uno dei più grandi al mondo, ha il 2,05% delle azioni di Mediaset, l’1% di Unicredit e circa l’1,95% di Bulgari (i dati arrivano dal Sovereign Wealth Fund Institute). Il Mubadala, invece, è nato nel 2002 e i suoi settori di investimento sono principalmente il real estate, la tecnologia e l’aerospaziale: il fondo partecipa con il 2% alla Finmeccanica Alenia, con il 35% alla Piaggio Aero Industries ed è partner industriale di Poltrona Frau; lo scorso novembre ha venduto la quota del 5% che aveva in Ferrari. Infine l’Ipic (International Petroleum Investment Company), fondata nel 1984, si occupa degli investimenti nel petrolchimico e possiede, sempre secondo il Sovereign Wealth Fund Institute, il 4,99% delle azioni di Unicredit Group (secondo maggiore azionista del gruppo Mediobanca). Al contrario, Dubai ha privilegiato una politica di apertura verso l’altra sponda del Golfo e l’Iran. Il fondo sovrano Dubai World, prima della crisi dello scorso anno e della bancarotta, aveva il 50% degli investimenti in Asia, mentre l’Adia, solo per citare un esempio, ha tra il 35% e il 50% degli investimenti in Nord America, tra il 25% e il 35% in Europa, tra il 10% e il 20% in Asia e tra il 15% e il 25% nei mercati emergenti (le percentuali sono quelle ufficiali diffuse da Adia).

Negli ultimi mesi, però, su pressione del vicino emirato, qualcosa sta mutando, in particolare lo storico legame con l’Iran. Rischiando il fallimento e la fine del sostegno delle banche e degli investimenti occidentali, Sheik Al Maktum ha dovuto in parte voltare le spalle a Teheran. Dubai era infatti, fino allo scorso anno, il paradiso finanziario degli ayatollah che riuscivano così ad aggirare le sanzioni internazionali e l’isolamento commerciale. I rapporti tra Iran e Dubai sono millenari, basta fare un giro nella città vecchia, lungo il Creek, la lingua di mare che entra nel deserto, per rendersene conto: l’architettura delle torri del vento, che corrono lungo il mare, arrivano dall’altra sponda del Golfo, portate dai commercianti persiani insieme alle loro merci, mentre i dhow, le tradizionali imbarcazioni emiratine di legno colorato, partono a ogni ora del giorno e della notte dirette in Iran, cariche di ogni genere di prodotti. Ma quello che più colpisce sono le insegne delle maggiori banche iraniane che campeggiano sulle rive del Creek, prima tra tutte la statale Mellat. Non stupisce allora che gli Emirati, per la prima volta, abbiano dichiarato il loro appoggio alle sanzione dell’Onu contro il programma nucleare iraniano, chiudendo quaranta compagnie che da Dubai rifornivano l’Iran di materiali considerati proibiti. Ma Dubai non può permettersi di recidere i legami commerciali con l’altro lato dello stretto di Hormuz, come ha sottolineato Sami Al Qamzi, direttore generale del Dubai Department of Economic Development, in occasione del World Economic Forum Global Agenda che si é tenuto a Dubai all’inizio di dicembre: «Per noi non è un’opzione interrompere gli affari con l‘Iran», ha dichiarato. Sarebbe un altro duro colpo per la fragile economia della città.

Ha collaborato Antonio Vanuzzo

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