Rovistare nella spazzatura in cerca di rendimenti elevati. I junk bond sono obbligazioni emesse da società che il mercato considera ad altissimo rischio, ma che proprio per questo offrono ritorni sul capitale investito di gran lunga superiori alle emissioni di società in salute finanziaria. Convenzionalmente, le agenzie di rating internazionali (Moody’s, Standard & Poor’s e Fitch) esprimono un giudizio sul debito delle imprese, attraverso una scala di valori. Di solito, se il debito di una società scende sotto il livello BBB- (nel caso della scala utilizzata da S&P, Baa3 invece per Moody’s e BB per Fitch) viene considerato «spazzatura».
Il fenomeno, in Usa, non è una novità, tuttavia da qualche tempo vanno di moda a Wall Street i derivati basati sull’andamento dei junk bond. Che vengono scambiati dagli operatori «allo scoperto», senza cioè possederli nel proprio portafoglio d’investimento. In un articolo uscito ieri, il Financial Times ha lanciato l’allarme: la richiesta di derivati «sintetici» (vediamo più avanti cosa significa esattamente questo termine) sta crescendo sull’onda di una visione rialzista sull’economia reale americana da parte dei manager della piazza newyorkese, ma le caratteristiche di questi prodotti risultano piuttosto simili ai derivati sui mutui subprime, la miccia che innescò la crisi statunitense nell’estate del 2007. Anche perchè, nel 2010, l’ammontare complessivo del debito sotto l’investment grade ha superato i 300 miliardi di dollari, circa pari al Pil di un Paese come la Grecia.
In sostanza, la questione è: sul lungo termine è sostenibile uno sviluppo di queste nuovi strumenti «sintetici»? Una domanda non certo peregrina, viste le notizie non esaltanti uscite negli ultimi giorni. Soltanto la scorsa settimana, i fondi comuni d’investimento americani – in base ai dati dell’osservatorio specializzato LipperFmi di Reuters – hanno segnato perdite legate alle obbligazioni monnezza per 862 milioni di euro, una tendenza che dura da tre settimane a questa parte dopo aver riportato, a metà febbraio, guadagni per 470 milioni di dollari. Da inizio anno al 3 marzo, oltretutto, il ritorno sul capitale investito è stato pari a un misero 2,4%, rispetto al 57% del 2009, la migliore performance di sempre, vista la trasposizione nell’economia reale del collasso di Wall Street del settembre 2008.
Insomma, sono lontani i tempi del rally. Lo dimostra anche l’indice di Bofa Merrill Lynch, che da inizio anno a oggi ha reso il 3,7%, ben lontano dal 15,2% dell’anno scorso. Discorso completamente diverso in Europa, dove le difficoltà di Grecia – a cui Moody’s ha nuovamente abbassato il giudizio sul debito – Irlanda e Portogallo spingono invece gli investitori verso questo tipo di obbligazioni.
Tornando dall’altro lato dell’Atlantico, un ruolo importante nell’utilizzo di questi strumenti «high yield», ovvero ad alto rendimento, sta nella politica monetaria messa in atto dalla Federal Reserve: bassi tassi d’interesse e programmi di acquisto di bond governativi per iniettare liquidità nel sistema hanno azzerato il costo del debito americano. I titoli di Stato Usa con scadenza a un anno, infatti, pagano lo 0,3%, mentre i triennali l’1%. Rendimenti non troppo sexy.
Come funzionano questi derivati? «Questi prodotti di fatto sono delle cartolarizzazioni su indici, nei quali all’attivo non ci sono titoli veri, ma derivati. Da qui il nome “sintetici”», spiega Umberto Cherubini, docente di Matematica finanziaria all’Università di Bologna. «A loro volta, queste cartolarizzazioni sintetiche possono essere funded o unfunded a seconda che al passivo si traducano nell’emissione di titoli cartacei o altri prodotti derivati», prosegue Cherubini, che aggiunge: «Nel caso dei derivati sui junk bond, si tratta di prodotti unfunded. Significa che vengono vendute delle passività suddivise in tranche a rischiosità progressiva. È come un palazzo che viene colpito da un’alluvione: dato un portafoglio di bond o derivati, all’attivo della cartoralizzazione, ai piani bassi del passivo ci saranno i derivati a più alto rischio di fallimento, mentre ai piani alti stanno i derivati più sicuri. Gli hedge fund acquisteranno strumenti dei piani bassi, più rischiosi ma maggiormente premianti in termini di rendimento, mentre le banche dai piani alti, più sicuri ed esposti a rischi di natura maggiormente sistemica».
Un meccanismo apprezzato dagli operatori sul mercato. «I cosiddetti “junk bond”, ossia titoli ad alto rendimento, sono una asset class che esiste da quarant’anni ed è ciclica, funziona bene quando le società hanno i conti in ordine e l’economia tira, funziona molto male quando le società falliscono. Anche per quest’anno, i tassi d’interesse Usa rimarranno bassi e la liquidità abbondante, c’è quindi appetito per qualsiasi attività renda di più dei Treasuries, come è già avvenuto per i corporate bond, le obbligazioni dei Paesi emergenti e, appunto, gli high yield», nota Marco Piersimoni, investment advisor di Pictet, la più grande banca privata svizzera specializzata nella gestione del risparmio. Per il 2011, il manager prevede «volumi in linea con il 2010, anche se non sarà un anno particolarmente positivo nota per le obbligazioni in generale, sul segmento high yield americano prevediamo un rendimento tra il 7 e il 10 per cento». In un portafoglio bilanciato, Pictet riserva a questo tipo di bond circa il 5% del totale.
«I derivati sono strumenti finanziari che servono o per coprire i rischi o per costruire posizioni a leva. Ovviamente, le strutture risultanti sono pessime quando il sottostante è rischioso e valide se il sottostante è di qualità. Gli high yield sono certamente meno sicuri dei titoli di Stato, ma è affatto scontato che siano i nuovi subprime», osserva ancora Piersimoni. Purchè tenga l’economia reale a stelle e strisce.