In Egitto la piazza continua a vincere

In Egitto la piazza continua a vincere

ROMA – IL CAIRO: Un’avanguardia giovane e vogliosa di portare avanti le conquiste di piazza Tahrir, un’opposizione in larga parte da ricostruire, il partito nazionale democratico dell’ex presidente Hosni Mubarak in fase di smantellamento, attori determinanti come l’esercito e i Fratelli musulmani: la rivolta egiziana del 25 gennaio ha aperto un periodo di grande incertezza politica ed economica, dove le componenti del vecchio regime che ruotavano attorno ai due figli di Mubarak, ‘Ala e Gamal, sono ancora influenti ma meno di prima. Quanto accaduto poi in questi ultimi giorni alle sedi della polizia segreta del Cairo e di Alessandra, attaccate da centinaia di manifestanti che ne chiedono la soppressione, sembra un segnale che i militari stiano perdendo il controllo della situazione, come temono israeliani e americani. O quanto meno che il momento del confronto fra le due anime del movimento che ha portato alla cacciata del deposto Hosni Mubarak, quella militare e quella della piazza, stia arrivando prima delle attese.

Per contentare la rabbia popolare,  gli uomini in divisa hanno iniziato a scaricare un po’ di uomini dell’ex presidente. A iniziare dal primo ministro Ahmed Shafiq, nominato da Mubarak nei suoi ultimi giorni di regno e ora cacciato. Al suo posto arriva Essam Sharaf, un ex uomo di governo che l’8 febbraio è passato coi manifestanti. In un chiaro segno di discontinuità, per il dicastero degli esteri Sharaf ha indicato il nome di una delle figure egiziane più rispettate: Nabil el Arabi, esponente del Movimento per il cambiamento di Mohamed el Baradei ed ex giudice della Corte internazionale di giustizia dell’Aja.

La rivolta sta infatti mostrando prospettive nuove. È opinione di molti osservatori che l’esercito abbia la genuina volontà di traghettare il paese alle elezioni e alla democrazia facendosi garante delle conquiste della piazza. Una posizione di forza che dovrebbe consentire il mantenimento di privilegi significativi. L’esercito costituisce in effetti una potente struttura economica con interessi in molti settori: servizi, trasporti, aziende agricole, comparti dell’industria manifatturiera, partecipazioni in villaggi turistici, telecomunicazioni. Interessi a volte in contrasto con quelli degli uomini d’affari. Proprio in questo conflitto, esploso con la paventata successione di Gamal Mubarak, considerato troppo vicino al business e troppo poco agli uomini in divisa, alcuni analisti hanno letto la chiave di volta degli eventi di questi giorni, quella che ha portato all’uscita di scena dell’ex presidente. Vedendo quanto accadeva nella vicina Tunisia, i militari avrebbero colto l’occasione per bloccare l’ascesa del non affidabile Gamal. Con il beneplacito del vecchio Mubarak i generali hanno infatti gestito i due miliardi di dollari annui ricevuti dagli Stati Uniti, in parte a copertura di spese militari (1,3 miliardi), in parte (700 milioni) destinati allo sviluppo economico. In un Paese di 80 milioni di abitanti, il terzo più popoloso d’Africa, con un reddito medio di circa seimila dollari.

All’ombra dei blindati, le proteste di piazza Tahrir hanno fornito un trampolino di legittimazione ai Fratelli musulmani, l’unica forza dell’opposizione veramente organizzata. Costretto alla semiclandestinità dai tempi di Nasser, il movimento fondato nel 1928 da Hasan al-Banna potrà muoversi con più libertà e costituisce sicuramente una barriera allo sviluppo di gruppi minoritari della costellazione islamica con agende ben più fondamentaliste: alle elezioni del 2005, presentando candidati indipendenti, ottenne 88 seggi (il 20% del totale); un risultato non confermato alle legislative dello scorso novembre segnate però da brogli e violenze. Alle prossime elezioni, i Fratelli musulmani – divisi al loro interno fra tradizionalisti e modernisti con gli esponenti più giovani che premono per un rinnovamento dei vertici – spenderanno il gettone di credibilità guadagnato affiancando le proteste.

Pur rispettosa della Fratellanza, sta intanto rafforzandosi una spinta libertaria e laica, forte soprattutto tra i giovani. Dall’undicesimo piano del palazzo che al Cairo ospita il Centro al-Ahram per gli studi politici e strategici, Emad Gad – capo dell’ufficio relazioni internazionali – segue con interesse le evoluzioni politiche e le riunioni che potrebbero condurre alla costituzione di una forza nuova e composita mettendo insieme pezzi del passato e della società civile: blogger, giovani di Kifaya e del movimento 6 Aprile, nasseriani, ex comunisti. «Possono dettare i tempi, costituire un’alternativa, sicuramente rappresentare una forza importante nel nuovo Egitto» sostiene Gad. Secondo Hisham Kassem, già direttore del quotidiano indipendente al-Masry al-Youm e attualmente impegnato nella fondazione di un nuovo giornale, «un profondo rinnovamento deve invece essere imboccato dal resto dell’opposizione». Troppi i compromessi con il rais perché la gente possa dare fiducia. «Un rinnovamento – aggiunge Kassem – che deve passare attraverso i quadri delle grandi aziende, gli uomini di cultura e alcune personalità tenutesi sempre a debita distanza dal regime».

Indietro e un po’ spiazzati dalle proteste, ma in cerca di nuovi spazi, sono una babele di piccole formazioni tra cui emergono i liberali di Ayman Nour, fondatore del partito el-Ghad, i nazionalisti del Wafd, i socialisti del Tagammu.
Nei giorni seguiti alla caduta di Mubarak, da uno dei palazzi che sovrasta piazza Talaat Harb, gli altoparlanti voluti da Nour ‘partecipavano’ con musica e comizi alla festa popolare. Una partecipazione un po’ distaccata e quasi d’élite. Pur essendo molto noto all’estero e pur vantando una storia di opposizione al rais pagata anche con il carcere, il peso di Nour nel panorama politico egiziano appare limitato. Il gap organizzativo rispetto ad altre realtà, come i Fratelli Musulmani, è d’altra parte uno dei motivi per cui el-Ghad è favorevole ad allungare i tempi della transizione fino a 18 mesi.

Il Wafd, tra i più antichi partiti egiziani, ha avuto un ruolo ambiguo negli ultimi 30 anni. All’opposizione, ma disponibile a scendere a patti e a collaborare con Mubarak, i nazionalisti del Wafd devono ricostruirsi un’immagine e punteranno ad aumentare il proprio bacino di influenza soprattutto nella media borghesia. Dilaniato da un dissidio interno è invece il socialista Tagammu: la base sta sconfessando l’operato dei vertici, per troppo tempo indifferenti agli umori popolari e impreparati a raccogliere le opportunità di piazza Tahrir. Una parte del partito potrebbe confluire nel movimento giovanile in via di formazione. Sia Tagammu che el-Ghad e Wafd possono essere ago della bilancia per la formazione di future maggioranze parlamentari.

Preoccupati dall’ascesa dei Fratelli musulmani, eppure sedotti dalle possibilità offerte da una futura democrazia, i cristiani copti – sulla base di alcune stime, il 10% della popolazione – vedono aprirsi due strade: quella poco probabile della formazione di un partito copto (ma la Costituzione vieta ancora le formazioni politiche a matrice religiosa) e quella di dirottare voti e impegno verso i partiti laici. A trarne vantaggio potrebbe essere quel fronte nuovo in fase di costituzione e in grado forse di attrarre anche personalità del mondo politico e della finanza. Un interrogativo riguarda infine il movimento che fa capo a Mohamed el Baradei. Il premio Nobel per la pace ed ex direttore dell’Agenzia internazionale per l’energia nucleare è sostenuto ma anche sopravvalutato dall’Occidente. Il suo peso in Egitto resta poco significativo e prima di giudicare occorrerà valutarne le iniziative in questa fase di transizione. El Baradei resta comunque uno dei possibili pretendenti alla presidenza, e da pochi giorni è stata avviata la campagna per la raccolta delle 30.000 firme necessarie alla candidatura. Anche il segretario generale della Lega Araba, Amr Moussa, ha confermato di essere pronto a candidarsi e di aver avviato la preparazione della propria campagna.

Sul calendario elettorale regna però incertezza. La giunta militare vorrebbe organizzare entro due mesi il referendum sulle modifiche costituzionali (decise da un comitato e su cui in realtà ancora si dibatte) ed entro sei mesi elezioni legislative e presidenziali. Parte dell’opposizione chiede tempi più lunghi e un governo di transizione affidato a tecnici. Il gioco ovviamente è proprio questo: prima ci sono le elezioni, più sarà difficile per le opposizioni avere tempo di organizzarsi. Circolano anche date più precise ma non confermate: 19 marzo il referendum, a giugno le legislative e dopo sei settimane le presidenziali. Una fase concitata e poco chiara, fatta di dibattiti e trattative, all’interno della quale è difficile capire cosa rappresenteranno esattamente i militari. Tanto più che dal 1956 nel Paese è illegale scrivere di loro e che il loro budget è segreto di Stato.

Certo, difficilmente Obama potrà accettare che i generali compiano un bagno di sangue. Ma per ora l’unica certezza è che gli americani hanno sempre più paura di una possible influenza iraniana sulla piazza. Parlando al Congresso lo scorso mercoledì il segretario di Stato Hillary Clinton è stata chiara: «Loro (gli iraniani) stanno usando Hezbollah….per comunicare con le controparti di Hamas che a loro volta comunicano con le controparti in Egitto».