Anche ieri i giornali israeliani aprivano parlando della pioggia di ordigni sparati dalla Striscia di Gaza contro il territorio dello Stato ebraico. Riportano le affermazioni del premier, Benjamin Netanyhau, che assicura: «Siamo pronti ad agire impiegando tutta la nostra forza per fermare i missili, nessuna altra nazione sarebbe disposta a tollerare una simile aggressione». L’ombra di una nuova guerra contro Gaza comincia a profilarsi, dunque, mentre l’ipotesi di resuscitare il processo di pace, in coma profondo da mesi, sembra allontanarsi sempre di più. Israele si appresta a vivere una nuova stagione di scelte difficili, in un contesto geopolitico nuovo, forgiato dalle rivolte arabe, e ancora non ben delineato. In molti, nel Paese, si chiedono se l’attuale dirigenza sia all’altezza del proprio compito.
Il dubbio aveva preso forma già mesi fa, quando l’amministrazione americana aveva chiesto a Gerusalemme di congelare i cantieri in Cisgiordania e a Gerusalemme est, nella speranza, o meglio nell’illusione, di poter risolvere il conflitto israelo-palestinese in «due anni», come aveva baldanzosamente dichiarato Barack Obama. La richiesta aveva uno scopo preciso: da Ramallah, il presidente Abu Mazen aveva dichiarato che non si sarebbe seduto al tavolo con Israele mentre le ruspe erano in funzione. Lo Stato ebraico, a denti stretti, aveva concesso dieci mesi di stop: moratoria da cui, però, era esclusa la parte orientale della città santa, dove si è continuato a costruire. Scaduti i dieci mesi, il processo di pace si è arenato e da Washington è arrivata una nuova richiesta: altri tre mesi di fermo.
In cambio, gli Stati Uniti offrivano una cornucopia colma fino all’orlo: venti aerei da combattimento F-35 Sthealt, diverse garanzie diplomatiche e una serie di accordi sulla sicurezza che avrebbero assicurato allo Stato ebraico il mantenimento della superiorità bellica nei confronti dell’arcinemico Iran per dieci anni. Netanyahu, confidava allora il suo entourage, aveva una gran voglia di chiudere l’accordo: ma non è bastato. Il no israeliano è arrivato dopo un serrato braccio di ferro interno alla coalizione di governo: braccio di ferro che ha mostrato a chiunque avesse occhi per vedere la debolezza del Primo ministro, ostaggio della sua stessa maggioranza. Il governo israeliano è composto da cinque partiti di destra e ultra-destra, più gli ex laburisti di Ehud Barak e i religiosi di Shas. Una formazione a dir poco eterogenea che finora ha ottenuto tre obiettivi: mandare all’aria il processo di pace, irritare a più riprese gli Stati Uniti, arrivando a causare quella che è stata definita la «peggiore crisi diplomatica degli ultimi 35 anni», e far colare a picco il partito laburista, dove in molti non avevano digerito la scelta dell’ex leader Barak di allearsi con i superfalchi di Likud e Yisrael Beitenu.
La questione della sopravvivenza politica di Netanyahu, costretto di volta in volta a scegliere tra rilanciare i negoziati di pace e far sopravvivere il proprio governo, ha accompagnato come un corollario ogni passo del Primo ministro. Che spesso, soprattutto in relazione alle trattative con i palestinesi e ai rapporti con gli Usa, ha finito per essere costretto ad assumere un atteggiamento in stile «vorrei-ma-non-posso». La sua maggioranza di governo è fragile, ed è tenuto all’angolo dal movimento dei coloni, che può contare su diversi “portavoce” nell’esecutivo. Chi spera di riaprire il tavolo negoziale con Ramallah invoca da tempo un rimpasto di governo e fa gli occhi dolci al partito centrista Kadima, che si trova all’opposizione, mentre destra e sinistra sono al governo. Un ruolo che il capo del partito, Tzipi Livni, sta gestendo male: di fatto, è sparita dalla scena, la sua voce si sente di rado, e ancor più sporadiche sono state finora sue prese di posizione forti.
Il punto è che Kadima era nato per volontà dell’ex premier Ariel Sharon con il mito del ritiro unilaterale da tutti i territori contesi. Ma oggi questo progetto è stato bruciato dall’esperienza fallimentare di Gaza, che dopo il ritiro israeliano si è trasformata in una enclave ostile, governata da islamico-radicali sponsorizzati dall’Iran. Nessuno, all’interno della formazione di Livni, vuole rischiare di ripetere lo stesso errore: ne consegue che un’opposizione flebile, ripiegata su se stessa. Ciononostante, se nella coalizione guidata da Netanyahu Kadima prendesse il posto di Yisrael Beitenu, la pace avrebbe di certo qualche chance in più. L’ipotesi piace a molti, compreso il presidente Peres. Da Livni, però, finora non è giunto alcun segnale di fumo. L’unico fumo che si alza in queste settimane in Israele è quello che emana dai crateri lasciati dai missili Grad sparati dalla Striscia, e che si accumula in nuvole nere e minacciose all’orizzonte.