La guerra delle reti tra Pechino e Washington

La guerra delle reti tra Pechino e Washington

Se un’impresa meglio di ogni altra simboleggia l’eccellenza del sistema industriale cinese, ma anche ciò che è particolare dell’economia socialista di mercato, è Huawei – che, forse non a caso, vuol dire “La Cina è grande”. Nello spazio di pochissimi anni, quella che era una società semi-sconosciuta anche in Cina è passata ad occupare la seconda posizione nella classifica mondiale dei produttori di sistemi per le telecomunicazione, alle spalle della sola Ericsson svedese. Nel 2009 il fatturato Huawei ha superato i 22 miliardi di dollari, tre volte quello del 2005. Con 1528 domande di brevetti all’Organizzazione Mondiale della Proprietà Intellettuale, l’agenzia dell’Onu che amministra il Patent Cooperation Treaty, Huawei si piazzava al secondo posto al mondo (tanto per avere un’idea di cosa significa questo numero, l’Italia ne aveva 2718). I suoi 17 centri di R&S sono distribuiti in tutto il mondo – tra l’altro a Silicon Valley e Dallas negli Stati Uniti, a Bangalore e a Milano dove il centro d’eccellenza per le tecnologia micro-onde collabora con il Politecnico e le Università di Padova, Ferrara e Pavia.

Huawei ha cercato di espandersi negli Stati Uniti, ma finora ogni suo tentativo è stato vano. L’ultimo episodio è recentissimo, l’accordo per acquistare 3Leaf Systems, una società californiana che sviluppa una tecnologia per il cloud computing e che era in amministrazione controllata. Dopo che la transazione era stata criticata da vari senatori, tra cui Jon Kyl dell’Arizona e Susan Collins del Maine, il Committee on Foreign Investments in the United States – un’agenzia interministeriale che giudica la conformità degli investimenti esteri con la sicurezza nazionale – ha chiesto a Huawei di ritirare l’offerta. In precedenza Huawei aveva cercato di acquistare una partecipazione in 3Com, fare un’offerta per alcuni cespiti di Motorola e vendere apparecchiature a Sprint Nextel, uno dei principali operatori americani. In ciascun caso, un fallimento dettato dal sospetto che dietro a Huawei si nascondano le autorità cinesi, e in particolare le Forze Armate, e che pertanto vi fossero rischi per la sicurezza nazionale (in pratica che il governo cinese possa manipolare i sistemi telefonici americani e intercettare messaggi telefonici e su Internet). Nel caso della possibile fornitura a Sprint, un gruppo di senatori aveva anche sollevato il dubbio che Huawei avesse venduto materiale al regime di Saddam Hussein, violando le sanzioni dell’Onu. In più la società è stata accusata di non rispettare i diritti della proprietà intellettuale.

Da disputa commerciale, questo è diventato un vero e proprio affaire di Stato. A Pechino un funzionario del Ministero del Commercio ha criticato la decisione del Cfius, accusando Washington di usare argomenti pretestuosi per “interferire” con gli investimenti cinesi negli Stati Uniti e lasciando intendere che questo potrebbe avere conseguenze nelle relazioni bilaterali. La risposta del Tesoro americano non si è fatta attendere: “We strongly support the longstanding bipartisan U.S. commitment to welcoming foreign investment, consistent with national security. This includes investment from China.” A febbraio, in una lettera aperta indirizzata a nessuna autorità in particolare, Huawei ha finito col chiedere agli Stati Uniti di lanciare un’investigazione formale sulle sue origini in modo da rimuovere ogni sospetto una volta per tutti. Una strategia che sembra fatta apposta per mettere in evidenza che tanti operatori telefonici americani sono ansiosi di acquistare da Huawei, i cui prezzi sono estremamente concorrenziali.

Che la società abbia legami stretti con l’apparato militare cinese è un sospetto veicolato da vari documenti ufficiali del governo americano e in particolare dal Pentagono nel rapporto al Congresso sui Military and Security Developments Involving the People’s Republic of China 2010 La società è stata effettivamente fondata nel 1987 da un ex officiale, Ren Zhengfei, che tuttora detiene l’1,42% delle azioni. Il resto è nella mani della Union of Shenzhen Huawei Investment & Holding Co., cioè dei 61457 dipendenti. Che “nessuna parte terza, comprese entità governative, detengano azioni” è un punto che Huawei enfatizza nella sua relazione annuale. Dove si trova anche una descrizione dettagliata del sistema di corporate governance, che sembra quello di una società tedesca, con un Board di nove membri, responsabile della sorveglianza delle operazioni e del management, affiancato dall’Executive Management Team (EMT).

In compenso l’identità dei membri di questi due consigli non è indicata, se non per Yafang Sun, presidente di Huawei dal 1999. È a questa manager, formatasi in Cina alla University of Electronic Science and Technology e specializzatasi alla Harvard Business School, che molti attribuiscono il successo internazionale di Huawei, soprattutto a partire dal 2003 quando il mercato cinese divenne più difficile. Secondo quanto riportato alcuni mesi fa da Caixin, una news platform diretta dal celebre giornalista Hu Shuli, Ren e Sun sarebbero però entrati in contrasto a seguito del tentativo del primo di nominare in consiglio il figlio, mentre la figlia Meng Wanzhou sarebbe diventata chief financial officer.

Alla fine il tanto temuto redde rationem tra i due non è avvenuto e la società continua ad essere gestita dallo stesso gruppo di dirigenti. Cercando faticosamente su Internet, si trovano i nomi e anche alcune informazioni biografiche – e ben poche tracce apparenti di legami torbidi con il complesso militare-industriale di Pechino. I vice-presidenti Guo Ping, Xu Zhijun e Wu Houkun sembrano avere i tipici curricula di quest’industria – un Master in Computer Science della HuaZhong University of Science and Technology per Guo, che è entrato poi immediatamente in Huawei; un dottorato dalla Nanjing University of Science and Technology per Xu, che ha passato vari anni all’estero, in particolare in Russia e negli Stati Uniti. Stessa storia per uno dei managing directors, Xu Wenwei, che lavora in Huawei da 20 anni.

La seconda accusa è che Huawei abbia rubacchiato molta della tecnologia che utilizza. Effettivamente Cisco Systems e Motorola hanno citato a giudizio la società cinese. Nel primo caso si è giunti ad un accordo extra-giudiziario tra le parti, nel secondo invece non si è ancora arrivati ad una decisione a proposito dell’accusa mossa a Huawei di avere cospirato tra il 2003 e il 2007 con vari ingegneri Motorola di origine cinese per impossessarsi di segreti dell’impresa texana. In ogni caso questa non è che una parte della storia: l’altra è che è stata Huawei a citare recentemente a giudizio Motorola per impedirle di trasferire a Nokia Siemens proprietà intellettuale che Huawei e Motorola hanno sviluppato in passato.

Infine, quello che non va giù a molti concorrenti è che il governo cinese aiuti pesantemente Huawei nella sua espansione internazionale, soprattutto nei mercati emergenti. Sicuramente le linee di credito messe a disposizione da Pechino servono a finanziare gli acquisti di materiale cinese. Ma, come ha messo recentemente in rilievo The Africa Report, le basi del successo di Huawei sono allo stesso tempo più ovvie e più complesse. Arrivata in Africa nel 1998, per installare un sistema CDMA in Kenya, la società cinese ha immediatamente scommesso sull’etica lavorativa, stazionando i suoi tecnici sul posto invece di gestire i contratti dall’estero come facevano i concorrenti; e di conseguenza ha messo in piedi centri tecnici in paesi come Angola, Guinea e Nigeria, dove pochi avevano il coraggio di arrivare, ancora meno di installarsi. Ironia della sorte, ora è Huawei a lamentarsi che un concorrente cinese, ZTE, faccia regolarmente offerte sotto-costo e lo accusa di offrire apparecchiature di scarsa qualità.

Insomma, anche se non sta certo a noi prendere posizione, da quello che si riesce a sapere su Huawei sembra che il problema non siano le interferenze politiche nella sua gestione, quanto piuttosto i rischi generati da un sistema di governance poco trasparente, in cui il controllo e i suoi benefici sono nelle mani di una famiglia che detiene una parte quasi irrisoria del capitale. Un problema per il quale il protezionismo non è certo la soluzione.

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