Ma Lampedusa non dice “fuori dalle balle”

Ma Lampedusa non dice “fuori dalle balle”

REPORTAGE DA LAMPEDUSA – La geografia emotiva dei lampedusani è qualcosa che non si comprende fino in fondo, finché non si mette piede sull’isola. A quel punto, dopo qualche giorno trascorso a masticare un po’ del loro accento e a decrittarne i silenzi, anche le loro timidezze paiono più chiare. A Lampedusa non si sentono migliori, non si sentono peggiori. Né italiani o siciliani. Semplicemente, si sentono a casa loro. È la stessa cosa che urlavano le femmine isolane al municipio, durante la visita del premier Berlusconi, due giorni fa: «Rivogliamo la nostra isola». È la stessa cosa che dicevano le pazienti e rocciose donne, addette alla mensa dell’aeronautica militare. Esauste, dopo aver preparato 1500 coperti, ma eccitate per la canea di stampa e istituzioni. Sedevano sorridenti qualche fila più indietro, rispetto ai giornalisti, nella sala dove s’attendeva il discorso del premier.

Volevano vederlo, “Silvio”, un po’ per valutare di vicino che aspetto avesse, un po’ per ribadire un concetto già espresso in mattinata: «Non vogliamo sconti o risarcimenti, rivogliamo la nostra vita, la nostra tranquillità». Quella fatta di tramonti, di routine, di lavoro, di passeggiate e di bimbi partoriti a quattordici anni. Di turismo e pesca, e di mani strette a mariti che si conoscono da quando si è bambine, anche. Sabrina, 38 anni, ha già una figlia sposata di poco più di venti, e aspetta di diventare nonna: «L’ho avuta a 14 anni, ma c’è chi mi ha battuto: un’altra ha partorito a dodici». Anche i cuochi della mensa infilano, in un gesto che può apparire banale, il senso di ciò che è il carattere di questa gente. Allungano panini destinati ai militari, ai cronisti che hanno digiunato. Non li disturba la giungla di telecamere, microfoni, domande, e bizzarri riti di un popolo chino sui taccuini e i black-berry. Sorridono, e aspettano che passi la buriana.

Stefano, che è venuto a prendere i clienti per portarli all’hotel O’scià, in centro, parla poco, e solo se interrogato. Scarrozza i giornalisti col suo furgoncino da un capo all’altro dell’isola. Paziente, parco di chiacchiere. Del sindaco, Bernardino De Rubeis, dice che ha cambiato tutti i colori politici possibili, ma che, in fondo, è anche quello che è riuscito a portare il maggior numero di isolani a votare, riavvicinandoli alla politica. È sempre così, per i lampedusani. Riescono a valutare il buono di situazioni critiche. Se si volesse ridurre il tutto a una sintesi gretta, si potrebbe dire che vedono “il bicchiere mezzo pieno”. Li abbiamo sollecitati, stimolati, provocati a esprimere un’opinione su un governo che è intervenuto tardivamente, e ha inviato, per 50 giorni di emergenza, solo un centinaio di militari. Niente da fare: «L’importante è che adesso si risolva», ti rispondono.

Per comprendere come sia fuori dall’ordinario, il loro approccio alle cose, occorre riflettere sul contraccolpo psicologico che hanno vissuto negli ultimi due mesi. Vedersi gravitare la popolazione del doppio del numero dei residenti, non dev’essere facile impresa. Erano in 5mila (compresi gli anziani e i bambini) e sono diventati più del doppio. Come se un’altra Lampedusa, di lingua e cultura diversa, si fosse infilata a casa loro, senza preavviso, pregandoli di schiacciarsi un po’ per fare posto.

Mentre i cronisti vagano in orari poco probabili, a caccia di cibo, chiedendo se qualcosa di aperto sia rimasto, loro ti rispondono di no. Però sorridono e ti allungano una focaccia nel retro del panificio che riaprono solo per te. È successo. Si è stretta la mano ad Antonino Consilio che ha una bottega sulla via principiale, via Roma, e non ha voluto neppure essere pagato. Dei clandestini dice che non è colpa loro, ma che sono troppi, che la politica in fondo si sa che dice menzogne e che anche l’Europa dovrebbe aiutarli, loro che a tratti non sono considerati neppure italiani. «Prima di fare l’unione monetaria, dovevano pensare a quella reale, l’unione politica», ti dice da dietro gli occhiali spessi e un filo di barba sopra le pieghe del volto. E ci leggi, dentro, tutta la saggezza popolare che neppure un saggio di analisi politica può spiegare con altrettanta chiarezza.

In questi giorni di emergenza si sono chiusi dentro le loro case (loro, abituati a vivere tenendo le porte aperte), però hanno cucito una toppa sull’assistenza che le istituzioni non hanno saputo offrire. Hanno fornito coperte, indumenti, cibo, sigarette, denaro, acqua, schede telefoniche, parole e sorrisi («perché anche se non si parla la stessa lingua, ci si intende lo stesso») ai migranti: quelli che qualcuno chiama “invasori”, e altri “nemici”. Sulla via Roma c’è Annina che ha una rete di rughe sul volto e nessuna paura di chi arriva da un continente diverso. I giovani tunisini che vagano per il paese, la salutano tutti i giorni, e la chiamano “Mamma Nina”. Lei, stretta nel suo maglione vinaccia, ha preparato panini con tonno e pomodoro, ha allungato dei soldi, e ha perfino prestato il suo cellulare perché i ragazzi chiamassero a casa loro, in Africa. Rassicurando le sorelle dei fanciulli che: «Qui in Italia sta andando tutto bene, e i ragazzi stanno mangiando». «Le ho capite lo stesso, anche se parlavano in francese, al telefono», dice sorridendo come una bambina che ha fatto qualcosa di proibito. Poi, nonostante l’età anziana, è andata a prendersi la sua verità facendo un giro giù al molo vecchio, dove c’erano continui sbarchi. «Ho visto che dormivano all’addiaccio, lo so quanto può essere odiosa l’umidità e gli ho portato delle coperte e dei vestiti che i miei nipoti non mettono più».

I migranti sono andati a salutarla dispiaciuti, ieri, dicendo che se ne sarebbero ripartiti: «Grazie, mamma», e le hanno dato un bacio. Tutti, dai commercianti ai residenti, anziani, donne e più giovani, sanno che Lampedusa è un incanto e che l’emergenza di questi mesi non può ammaccarlo poi troppo, questo incanto, con una stagione turistica guastata. «Certo», dice Martina, casalinga, 36 anni, «le disdette sono arrivate per le prenotazioni di Pasqua e abbiamo dovuto chiudere le scuole per proteggere i bambini. Ma passerà. Potevamo esserci noi, al loro posto».

Qualche piccolo incidente, in realtà, è successo: un paio di jeans rubati che si sono risolti con una scazzottata e qualche botta. Qualche violazione di domicilio, per trovare un posto caldo dove dormire. Ma i codici tra residenti e clandestini si sono chiariti molto presto. L’isola è un buco, questa è casa mia, se combini qualcosa vengo a prenderti subito, non puoi nasconderti. In questo patto tacito le cose sono filate lisce. Pochi atti di violenza, e un’inaspettata forma di dialogo. Così inattesa che qualcuno te lo confida con pudore, anche se teme nuovi sbarchi: «In fondo, mi spiace che se ne vadano. Mi ci ero affezionato, anche se erano troppi».

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