C’è un doppio fronte dalle parti di Downing Street al quale prestare attenzione. Perché se il governo britannico è alle prese con la matassa Musa Kusa, il ministro degli Esteri libico che nei giorni scorsi è fuggito da Tripoli a Londra, che per alcuni è una risorsa nella guerra con Gheddafi mentre per altri non rappresenta il massimo delle garanzie, c’è una campagna interna da portare a casa e presto. Durante l’ultima campagna elettorale, David Cameron fece infatti della riforma della sanità uno dei punti cruciali del programma conservatore, ma ad un anno di distanza le cose si sono complicate e i nodi sono venuti al pettine nella settimana decisiva per la sua discussione.
Fu lo stesso Cameron nell’inverno 2010 a dire che il suo era il partito del servizio sanitario nazionale, la National Health Service (NHS) che è stata in grado nelle esperienze precedenti di mettere in difficoltà anche l’operato del laburista Tony Blair. Ed era il volto di Cameron quello che apparve sui manifesti elettorali con una frase che avrebbe dovuto rassicurare gli elettori d’Oltremanica: “Taglieremo il deficit, non la NHS”, che può contare su un budget di 80 miliardi di sterline, all’incirca 91 miliardi di euro. Il progetto era chiaro e mirava alla partecipazione di settori privati legati al mondo del volontariato per far fronte alle difficoltà di bilancio del Regno Unito, garantendo a tutti il diritto di scegliere qualsiasi fornitore di assistenza sanitaria che fosse compatibile con gli standard fissati dalla NHS, oltre che ad una ridefinizione del ruolo dei medici di base, che nel mondo anglosassone sono conosciuti sotto la sigla di GP, General pratictioner. Una scelta in linea con l’idea di Big Society che pervade la visione politica social conservative del Primo ministro, dove dovrebbero essere i cittadini a colmare le lacune lasciate dallo stato.
Non è un caso che il ruolo di segretario alla Sanità sia andato a Andrew Lanlsey, dal 1997 presente in Parlamento tra i ranghi del partito conservatore e per sei anni (dal 2004 al 2010) ministro ombra dello stesso settore. Un uomo che conosce la pratica dunque e che punta su un sistema al quale prendano parte dei consorzi di medici di base a cominciare dal 2013, anche se alcune sperimentazioni sono già pronte ad essere avviate. Sulla carta tutto era in ordine, ma l’esecutivo nato dalla coalizione tra conservatori e liberaldemocratici non è riuscito prima di tutto a comunicare in modo chiaro le proprie intenzioni sulla riforma, concedendo terreno alle critiche. Un intoppo noto e assodato: l’opinione pubblica fatica a percepire i messaggi e le parole di Cameron e del suo entourage su quelli che dovrebbero essere le big issues, i grandi argomenti del suo mandato. A febbraio, quando è tornato alla carica con la “Big Society” tenendo un discorso davanti ad una platea di persone e imprenditori che si dedicano al volontariato e al sociale, oltre il 74% degli intervistati non aveva chiara l’idea di quale fosse l’obiettivo in questione.
In seguito Lord Norman Tebbit, nel cui curriculum politico si segnalano i mandati da segretario per il Commercio e l’Industria e per il Lavoro durante i mandati di Margaret Thatcher, si è detto preoccupato per la competizione non equilibrata che si creerebbe all’intero del sistema sanitario tra gli ospedali della NHS e i consorzi privati. A coronare le difficoltà, è arrivato il fuoco amico con i commenti taglienti di alcuni giornali come il Daily Telegraph.
Infine, i Lib Dem di Nick Clegg si mostrano nuovamente una palla al piede: portati in trionfo dai media internazionali nello scorso aprile alla luce di alcuni sondaggi che li davano come protagonisti delle General Election alle porte, sono piombati in uno stato depressivo e costantemente sotto il 10% dei consensi tra la popolazione, spingendo la base a virare per posizioni più dure e meno dedite al compromesso con i Tories.
Dopo tutto, tra un mese i sudditi di sua maestà saranno chiamati nuovamente alle urne per le elezioni locali. Sarà quello il banco di prova del governo guidato da David Cameron? Probabilmente sarà più che altro un contrappasso. La rincorsa al Numero 10 di Downing Street dei conservatori guidati da Cameron dopo anni di esilio per colpa del New Labour vincente capeggiato da Blair e Gordon Brown, partì proprio dal 2005 quando Cameron venne eletto leader del partito. Arrivarono i primi risultati positivi alle Amministrative, seguiti da un crescendo di consensi che si è arrestato al momento chiave, alla vigilia di quelle legislative di un anno fa. Oggi la situazione è molto diversa, come testimoniano alcuni sondaggi condotti da YouGov, uno degli istituti di ricerca più accreditati.
Dati per scontati i risultati negativi in Scozia e in Galles dove i conservatori tradizionalmente non sono in grado di competere con i rivali laburisti o dello Scottish National Party, salvo rare eccezioni, e nemmeno con gli improvvisati e improbabili alleati liberaldemocratici, un sondaggio pubblicato dal popolare The Sun dimostra come nelle aree interessate dalla tornata elettorale i Tories abbiano lasciato per strada molti consensi, a tutto vantaggio dei laburisti. A conti fatti, i conservatori perderebbero 1000 consiglieri e il 4% dei voti, mentre il Labour Party di Edward Miliband, lesto a captare il malcontento che la maggioranza sta affrontando, ne guadagnerebbe il 16%. I liberaldemocratici sono in caduta libera, con un -11%.
Le ultime rilevazioni aggiornate al 31 marzo dicono che il 42% dei britannici voterebbe laburista, il 35% conservatore. Solo due settimane prima, i Tories guidavano con un vantaggio di tre punti percentuali (37 a 34). Poi, tra le tante cose, si è cominciato a parlare di riforma sanitaria.