La Costa d’Avorio brucia ma la City sorride

La Costa d’Avorio brucia ma la City sorride

La Costa d’Avorio fa gola agli investitori. La guerra civile che è in corso può diventare il baricentro di buona parte degli interessi economici della finanza mondiale. La capitale Yamoussoukro brucia, ma la City sorride. Da un lato c’è Laurent Gbagbo, presidente della Repubblica ivoriana dal 2000 e perdente alle ultime elezioni di novembre. Dall’altro troviamo il legittimo vincitore, Alassane Ouattara, presidente del partito d’opposizione Rassemblement des républicains de Côtes d’Ivoire. Ouattara è appoggiato da una coalizione internazionale e sta cercando di difendere la propria posizione, anche tramite l’Onu e l’Unione africana, che ha ufficialmente chiesto a Gbagbo di rinunciare alla carica presidenziale. Nonostante questo, la guerra continua. E fra cacao, caffè, diamanti, olio di palma e oro, c’è già chi inizia a calcolare quando potrebbe guadagnarci. Lo stato africano infatti è uno degli snodi fondamentali le materie prime agricole e minerarie. «È una piccola grande gemma», disse della Côte d’Ivoire il finanziere George Soros in un’intervista alla Cnbc qualche anno fa.

Prima di tutto vengono i diamanti. Secondo indiscrezioni De Beers, il monopolista di fatto del mercato diamantifero mondiale, ha già provveduto a blindare le vie di passaggio dei minerali. La Côte d’Ivoire infatti, oltre che avere svariate miniere, è uno dei punti nevralgici della tratta di diamanti. Nonostante il Consiglio di sicurezza dell’Onu abbia imposto nel 2005 la chiusura dei giacimenti esistenti, nell’ambito della vicenda ”Blood diamonds”, il mercato ha continuato a essere prospero. Secondo le stime di Mbendi, società di comunicazione ivoriana, la produzione annuale è di circa 165mila carati su una produzione globale di 120 milioni di carati, secondo le stime della HRD (Hoge Raad Voor Diamant) di Anversa, uno dei tre istituti internazionali di certificazione. E dato che, da quanto si apprende da Le Monde, le truppe di Gbagbo hanno bloccato gli accessi ai giacimenti tramite frane ed esplosioni mirate, i produttori hanno cercato di limitare i danni.

Non di soli diamanti vive l’economia ivoriana. Caffè, cacao e olio di palma: sono queste le tre materie prime di cui la Costa d’Avorio è il massimo produttore (e massimo esportatore) mondiale. Proprio queste tre commodity sono fra quelle che hanno visto incrementare di più il loro prezzo negli ultimi due anni. Secondo l’indice stilato dal Fondo monetario internazionale (Fmi) in febbraio il prezzo del caffè è aumentato del 74% rispetto allo stesso periodo dello scorso anno. un incremento che, lo spiega la stessa istituzione di Washington, è il frutto soprattutto delle tensioni fra Ouattara e Gbagbo.
L’altro aumento record è quello dell’olio di palma. Il prezzo di questa commodity s’è impennato nel corso di un anno del 65,5%, mentre solo in febbraio è aumentato dello 0,8% su base mensile, sempre secondo i dati del Fmi. Secondo Le Monde intorno al prezzo di questa commodity è possibile che si scateni una corsa al rialzo, dato che buona parte delle coltivazioni sono state incendiate. Infine c’è il cacao, forse il bene più a rischio a seguito della guerra in corso. Negli ultimi 12 mesi il prezzo è salito del 5,9%, una cifra risibile se confrontata con quelle delle altre materie prime. Ma la reale impennata c’è stata quando i due principali porti per il trasporto del cacao sono stati bloccati dalla guerriglia. Proprio ieri le truppe di Ouattara hanno conquistato il porto di San Pedro, da cui parte il 50% di tutta la produzione nazionale. Anche in virtù di ciò, il prezzo sta avendo fluttuazioni inaspettate: nell’arco di 30 giorni, fra gennaio e febbraio, è aumentato del 9,7% su scala globale, mentre su base nazionale del 14,5 per cento.

Oltre a diamanti e materie prime alimentari, c’è l’economia reale. E su questa, il monopolio spetta ai francesi. Anzi, a uno in particolare. Come ha ricordato Linkiesta lo scorso 21 febbraio, la Costa d’Avorio rischia di scombinare gli interessi di Vincent Bolloré. Tramite una holding chiamata Bolloré Africa Logistics (Bal), il finanziere bretone ha la concessione del porto di Abidjan, la capitale finanziaria ivoriana, e ha il pacchetto di maggioranza della compagnia ferroviaria Sitarail, la prima della Costa d’Avorio. Di fatto controlla buona parte delle vie di comunicazione fra il Paese e l’esterno, proprio quelle su cui passano le materie prime che fanno tanto gola agli investitori. E dato che le prime cinque banche internazionali (Bnp Paribas, Citigroup, HSBC, Société Générale e Standard Chartered) hanno chiuso completamente le attività a seguito della guerra fra Gbagbo e Ouattara, è difficile che Bolloré stia dormendo sonni tranquilli.

A sognare sono invece gli hedge fund specializzati in commodity. Durante una conferenza londinese organizzata da Bloomberg con un focus specifico sui fondi speculativi, è emerso che il 40% dei gestori ritiene l’Africa la scommessa più interessante da fare per i prossimi dieci anni. L’instabilità politica, le guerre intestine e le potenzialità ancora non sfruttate nel segmento delle materie prime sono il maggiore driver di questa tendenza. Del resto, gli eurobond emessi da Yamoussoukro stanno attirando molti per via della loro performance frizzante. Da dicembre a oggi i 2,3 miliardi di dollari con scadenza nel 2032, emessi sotto il controllo di JP Morgan e listati alla Borsa lussemburghese, hanno registrato un aumento del 6,3 per cento. Se a ciò si considera che la presidenza di Gbagbo ha lasciato il Paese con un forte gap economico rispetto ad altre nazioni vicine, il quadro per gli investitori è roseo. Nella corsa alla ricostruzione ci sarà anche spazio per l’accaparramento delle miniere e dei migliori terreni. Sempre che arrivi il benestare dei signori della guerra.  

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