Difficile capire oggi chi governerà Milano tra sei mesi ma è meno arduo prevedere che, indipendentemente dal risultato elettorale, in autunno la Sea, la società di gestione di Linate e Malpensa, sarà quotata in Borsa. Sarebbe improprio dire che sarà privatizzata, dal momento che l’operazione approvata dal cda stabilisce che il comune mantenga saldamente in mano il 51% delle azioni e ceda poco più di un terzo del capitale. Ad ottobre quindi Sea approderà in Borsa e grazie alla distribuzione di un dividendo straordinario di 160 milioni, immediatamente prima dello sbarco in Piazza Affari, le esauste casse del Comune avranno una boccata d’ossigeno. Boccata che non disprezzerebbe neppure un’amministrazione targata Pisapia.
Il progetto, già avanzato una decina d’anni fa dalla giunta Albertini, ha incontrato una sorta di apprezzamento bipartisan. Nessuno a livello politico contesta la quotazione, qualcuno ha da dire sul come. Sempre creativi, i leghisti si sono distinti anche in questa occasione. «Se ne può discutere, ma a una condizione – ha precisato il capogruppo della Lega a Palazzo Marino, Matteo Salvini – che le azioni collocate in Borsa siano destinate in via prioritaria ai cittadini milanesi». Concetto innovativo, forse un po’ al limite in termini di diritto, e forse un po’ pericoloso: può essere giusto non privilegiare fondi di investimento e banche, ma la garanzia che la matricola Sea sia una buona occasione e non l’ennesimo “pacco” per i piccoli risparmiatori lombardi non esiste. La potrebbe fornire solo un prezzo particolarmente basso per l’Ipo, ma in questo caso si andrebbe contro gli interessi della collettività.
La vendita di Sea serve infatti a rafforzare un bilancio meneghino niente affatto brillante, per cui è difficile pensare ad un’operazione a prezzi di saldo per premiare i risparmiatori milanesi a spese dei cittadini. Non è la borsa il luogo preposto per questo tipo di operazioni. Può stupire però che un comune ricco come Milano sia costretto a vendere le partecipate per fare cassa, ma i ricchi spendono e Milano non si sottrae. Il livello delle uscite correnti, quelle che servono a far girare la macchina, il personale e compagnia cantante ammonta per il 2011 a 2,5 miliardi. Non pochi e soprattutto una cifra cresciuta del 40% rispetto all’inizio del quinquennio di Letizia Moratti. In termini procapite fanno 1.917 euro per abitante, molto più di quanto spenda procapite Roma (1.449), o una città del Sud come Napoli (1.551) . La spesa corrente in sé non è buona o cattiva, di destra o di sinistra, indice di gestione mirata o dissennata. Ma va tenuta nel debito conto.
Purtroppo però le spese corrono e a Milano più che a Roma. Nel 2006 le spese correnti di Palazzo Marino erano pari a 1.308 euro per abitante, contro i 1.096 di Roma. Colpa dei dipendenti probabilmente: a Milano sono poco più di 16.000, a Roma circa 25.000. Ma i romani sono circa il doppio dei milanesi, per cui a Milano ci sono 1,3 dipendenti comunali ogni 100 abitanti mentre Roma si attesta intorno all’1%. Milano capitale del lavoro pubblico rispetto a Roma? No, per il momento, visto che la differenza nel livello dei servizi comunali tra le due città è ancora palpabile. Anche se va aggiunto che a Roma ci sono più bambini e il Comune ha una superficie territoriale sette volte maggiore.
Una bella differenza c’è anche nelle società controllate. Quelle meneghine impiegano poco più di 22.000 dipendenti, circa 5.500 in meno rispetto a quelle romane. A Milano ce n’è uno ogni 60 abitanti, a Roma uno ogni 100. Altro luogo comune sfatato? No, dal momento che ogni dipendente di una società municipale a Roma produce ricavi per poco più di 100.000 euro, e a Milano per oltre 200.000 euro: più del doppio.
Forse anche per eliminare queste distonie il presidente della Provincia di Milano, Guido Podestà, ha lanciato per Sea una proposta audace (la provincia ha il 14% di Sea e quindi voce in capitolo): perché non fare una nuova società con Fiumicino prima della quotazione per creare il massimo delle sinergie possibili? Idea un po’ ardita, ma non originale. La proposta di una collaborazione industriale tra i due scali risale al primo governo Prodi, quando alla testa di Sea c’era Giorgio Fossa, già presidente Confindustria. Il progetto si fermò a causa dell’11 settembre, ora dieci anni dopo destini e assetti proprietari sembrano troppo diversificati per una nuova convergenza. Difficile pensare che i Benetton siano interessati a Sea e inoltre la privatizzazione sembra avere un carattere esclusivamente meneghino, visto il trattamento di favore che si vorrebbe riservare ai residenti in città.
Nei conti milanesi le entrate extratributarie legate ai servizi pubblici sono poco significative, il bilancio lo reggono gli assegni staccati dalle partecipate. Di qui l’importanza dei 160 milioni di Sea pre-quotazione, degli 80 milioni che potrebbero arrivare dalla dismissione della quota della Serravalle. Milano Sport si prepara a cedere ai privati una quota tra il 40 e il 49%: sta in piedi a fatica, e arriva a perdere un terzo del fatturato. Anche le mense scolastiche avranno presto un socio privato, si parla di cedere il 40% delle quote. Qualche decina di milioni potrebbe venire da Atm. Insomma, se non siamo ai saldi di fine stagione poco ci manca, e ciò nonostante i revisori dei conti di Palazzo Marino abbiano chiesto al Comune di ridurre il ricorso a operazioni straordinarie per far quadrare il bilancio. Consiglio letteralmente inascoltato, ma non potrebbe essere diversamente: è previsto per il 2011 un disavanzo di parte corrente di 146,5 milioni, quasi due terzi in più del rosso di 90 milioni registrato agli inizi della gestione Moratti. Una volta venduti i mobili di casa non rimarrà molto, ma sarà un problema di chi dovrà mettere a punto il preventivo del 2012.
La legislatura di Letizia Moratti si chiude all’insegna della coerenza e in stretta continuità con la decisione manifestata sin dagli inizi di privatizzare le partecipate. In questi giorni arriva al traguardo la prima privatizzazione avviata cinque anni fa. Un affare d’oro: non per il Comune però, ma per i privati che a fine 2006 hanno comprato a prezzi di saldo Metroweb, l’azienda che gestisce la fibra ottica meneghina. Oggi si preparano a venderla con un guadagno stratosferico. Il brutto anatroccolo – ceduto per 232 milioni, 200 milioni di debiti, 24 messi dai compratori e 8 spesi da Aem per conservare il 23% del capitale – è diventato una gallina dalle uova d’oro che vale tra i 430 e i 490 milioni. Queste le cifre offerte alla Stirling Capital, quando agli inizi dell’anno la finanziaria londinese ha deciso di mettere in vendita la società.
La vendita era stata voluta proprio dal sindaco: «si tratta di una rete senza know-how innovativo e di valore strategico molto limitato», aveva puntigliosamente osservato, dando il via libera alla cessione dei 263mila km di cavi interrati nel sottosuolo milanese da Aem con un investimento di 200 milioni. Metroweb ha macinato dal 2007 ad oggi oltre 30 milioni di utili (12,6 solo nel 2010). Più dei 24 spesi di Stirling Square Capital Partner, operatore di private equity con sede nelle Isole del Canale, per comprarne il 77% da Aem in un’asta organizzata in fretta e furia. Metroweb non è cambiata molto dal 2006. Il debito di cui la società era caricata si è ripagato da sé, con acquisizioni di nuovi clienti, e il margine operativo lordo è cresciuto dai 29 milioni del 2006 ai 42 milioni del 2010. E oggi sono tutti in fila per l’acquisizione della rete “senza know how innovativo”: da Vodafone a Wind a IntesaSanpaolo, oltre a fondi di private equity. La vendita è prevista per metà giugno, appena chiuse le urne per le elezioni a Palazzo Marino.
Il conto dei guadagni e delle perdite in questa bizzarra partita di giro (una svendita vera e propria, come sostenevano sin dal 2006 l’opposizione e il management della società) sono semplici. Stirling incasserà per la sua partecipazione circa 175 milioni in contanti, quasi sei volte l’investimento iniziale. Un affare d’oro chiuso in soli cinque anni. Il mancato introito per A2A, l’erede della vecchia Aem Milano, è direttamente proporzionale. Se la municipalizzata si fosse tenuta il 100% di Metroweb, oggi potrebbe mettersi in tasca al netto dei debiti più di 300 milioni. Invece si dovrà accontentare di meno della metà.
A quanto ammonta il danno per Palazzo Marino? Secondo alcuni calcoli poco meno di 50 milioni, regalati direttamente dalla giunta Moratti al fondo Stirling. Il conto per Milano, tra l’altro, non finisce qui. L’accordo per la cessione della fibra ottica nel 2006 prevedeva un diritto d’utilizzo gratuito della rete per il Comune che garantisse un servizio di connessione a banda larga ai cittadini. Un’opzione che non è mai stata attivata. La storia non sempre si ripete, e non è detto che con Sea si reiterino gli errori e la scarsa capacità di lettura finanziaria mostrati con Metroweb. Anche il mercato ha le sue regole e cinque anni per un apprendimento di base dovrebbero essere stati sufficienti. Almeno ad evitare nuovi abbagli.