CITTA’ DEL VATICANO – E’ sempre più un referendum su Comunione e liberazione (Cl) la partita per la successione al cardinale Dionigi Tettamanzi come arcivescovo di Milano. Il porporato è in prorogatio dallo scorso 14 marzo, quando sono scaduti i due anni di prolungamento del suo ministero rispetto al compimento dei 75 anni, l’età standard per il pensionamento di un vescovo. Da allora è partita sottotraccia, a Milano e in Vaticano, una battaglia senza esclusione di colpi per la scelta del capo della più grande arcidiocesi d’Europa. Una scelta che spetta, alla fine, al Papa. Ma che ha scatenato aspettative, pressioni, candidature vere e ballon d’essais, accelerazioni e frenate. E, soprattutto, che ha avuto, sinora, un solo, vero protagonista: il cardinale Angelo Scola, Patriarca di Venezia, unico front runner alla successione di Tettamanzi. Spinto con veemenza da alcuni, osteggiato con altrettanta determinazione da altri, ora, pare, pronto a fare un passo indietro.
Perché Scola ha diverse frecce al suo arco, a partire dal legame personale con Joseph Ratzinger sin dai tempi in cui fondarono Communio, la rivista internazionale di teologia che ha fatto il controcanto alla testata conciliarista Concilium. Ma il Patriarca di Venezia ha anche diversi handicap: ha quasi 70 anni, è già a capo di una diocesi delle più autorevoli al mondo, tale per cui il suo passaggio da Venezia a Milano sarebbe un unicum nella storia della Chiesa ritenuto incongruo da molti osservatori anche interni alla Chiesa.
Ma il limite più grande di Scola è un altro, e si chiama Cl. Il suo rapporto con Comunione e Liberazione è solido e affonda le sue radici nel passato. Proprio per lo stretto legame con il movimento di don Giussani, inviso negli scorsi decenni a diversi vescovi, Scola ha girovagato per diverse diocesi prima di essere ordinato prete a Milano a quasi trent’anni. La vicinanza a Cl, a un certo punto, è divenuta così ingombrante che Scola, soprattutto da quando è approdato a Venezia, ha rarefatto i contatti con i suoi amici di un tempo. Non si è trattato di un allontanamento negli affetti, quanto piuttosto della proiezione in una dimensione più neutrale nel complesso quadro degli equilibri ecclesiali.
Forte di questa smarcatura, però, Scola non è riuscito, negli anni scorsi, ad accedere ai ruoli che la sua statura intellettuale gli avrebbero potuto garantire. Tra i “papabili” al Conclave del 2005, il Patriarca di Venezia non sarebbe neppure entrato in competizione per prendere il posto di Giovanni Paolo II. Quando nel 2007 il cardinale Camillo Ruini ha lasciato la guida della Conferenza episcopale italiana, poi, a Scola, sponsorizzato dallo stesso Ruini alla sua successione, ha sbarrato la strada il cardinale Segretario di Stato Tarcisio Bertone. Il salesiano ha puntato su altri candidati per la guida dell’episcopato italiano – il francescano Benigno Papa, arcivescovo di Taranto, o l’allora arcivescovo di Torino Severino Poletto – ma poi, dopo un lungo braccio di ferro con Ruini, la scelta di compromesso è ricaduta sull’arcivescovo di Genova Angelo Bagnasco.
Nessun posto per Scola neppure in Vaticano, dove il Papa avrebbe potuto chiamarlo per ricoprire il ruolo di prefetto della Congregazione per la Dottrina della fede (ma è stato nominato lo statunitense William Lavada) o quello di gran capo del nuovo Pontificio consiglio per la Nuova evangelizzazione (compito al quale è stato chiamato mons. Rino Fisichella, non prima che gli ambienti ciellini ricordassero che quel dicastero era un’idea originaria di don Giussani e, appunto, di Scola).
Destinato ad un’ascesa inarrestabile, Scola sembra sempre bloccato da un soffitto di vetro. E il motivo è sempre lo stesso. “E’ ciellino”, ricordano, semplicemente, i suoi nemici. Un’accusa di parzialità, più che un segno di disistima per un movimento che pure gode di ampie simpatie anche in Vaticano. Un’accusa che sta facendo breccia anche nella corsa per la successione a Tettamanzi.
Perché Scola è stato, sin dall’inizio, l’unico vero candidato all’arcidiocesi ambrosiana. Ma tanto lo hanno sponsorizzato i suoi amici, tanto la sua candidatura ha innescato resistenze a Milano e a Roma. A partire dal cardinale Bertone, che ha prima tentato di bloccare la sua nomina puntando su un altro cardinale di peso, Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio consiglio della Cultura dopo aver trascorso lunghi anni alla Biblioteca ambrosiana. Poi, quando il nome di Ravasi è tramontato (anch’egli si avvicina ai 70 anni, non ha praticamente alcuna esperienza pastorale ed ha un profilo forse fin troppo intellettuale per una diocesi complessa come quella milanese), Bertone ha tirato fuori dal cilindro un altro contro-candidato, il vescovo di Piacenza Gianni Ambrosio, meno noto di Ravasi, più pastorale, già legato a Milano per il ruolo di assistente ecclesiastico dell’università Cattolica. Anche Ambrosio, però, è sparito velocemente dal toto-nomine vaticano.
Dal Palazzo Apostolico è allora partito il tam-tam sull’importanza di Venezia. Dalla Laguna – è stato detto e ripetuto – sono partiti nel solo Novecento tre Papi, Pio X, Giovanni XXIII e Giovanni Paolo I. Come dire che il Patriarcato di Venezia è già una sede sufficientemente prestigiosa per scoraggiare chi vi risiede ad avere altre ambizioni che non siano il Conclave. Scola, però, ha continuato a godere di fan e sostenitori.
E così, ai rumors che davano Scola in caduta libera nelle quotazioni per il dopo-Tettamanzi, si sono contrapposti, nelle scorse settimane, boatos circa il fatto che era ancora lui, Scola, l’unico candidato destinato al successo. Un successo così incerto, però, che dopo mesi di consultazioni la sua nomina ancora non si sblocca. Dai preti milanesi, cresciuto negli anni di Tettamanzi e Martini, sono iniziate a levarsi malumori e proteste nei confronti di una candidatura che rappresenterebbe una chiara rottura. Il clero ambrosiano ha fatto arrivare in Vaticano l’apprezzamento per monsignor Erminio de Scalzi, vescovo ausiliare, sorriso cordiale, abile fund raiser, prelato che ha già in mano per la Curia ambrosiana la gestione dell’Expo e dell’incontro internazionale delle famiglie del 2012. I vescovi lombardi, da parte loro, hanno fatto capire che preferirebbero uno dei “loro”, ad esempio il vescovo di Bergamo Francesco Beschi o – idea più originale – il provinciale dei gesuiti italiani, il milanese Carlo Casalone.
Nessuna di queste soluzioni, però, sembra decollare. Nata e subito morta anche l’ipotesi di una candidatura milanese del cardinale Bagnasco. Dopo una prima consultazione svolta, come di prammatica, dal nunzio apostolico in Italia, mons. Giuseppe Bertello, nella quale né Scola né altri candidati si sarebbero affermati con nettezza, dal Palazzo Apostolico sono partite altri approfondimenti. Tra i nomi che circolano, oltre a quelli di Scola e Ravasi, quelli del nunzio apostolico in Venezuale Piero Parolini, del vescovo di Rimini Francesco Lambiasi e dell’osservatore della Santa Sede presso il Consiglio d’Europa, il focolarino Aldo Giordano. Tutte figure che, però, tornano nei toto-nomine vaticani con tale ciclicità da lasciare il dubbio che siano solo ipotesi di scuola funzionali alla bocciatura del vero candidato, Angelo Scola appunto.
Tale è la resistenza che lo stesso Scola, di recente, avrebbe confidato di rinunciare alla corsa. “Sto bene a Venezia”, avrebbe detto a chi ha avuto modo di parlargli ancora in questi giorni. Sentimento sincero o mossa tesa ad allentare le pressioni che vanno concentrandosi su di lui? Quel che è certo è che il Papa ancora non ha deciso. Prima di nominare il nuovo arcivescovo potrebbe chiedere alla Congregazione dei vescovi di esprimersi su Milano in occasione della congregazione ordinaria convocata per il prossimo 9 giugno. Alla fine, potrebbe scegliere prima dell’estate.
Nella partita milanese, intanto, potrebbe pesare la vittoria di Giuliano Pisapia. Formalmente non c’è legame tra l’elezione del sindaco e la nomina dell’arcivescovo. Palazzo Marino in mano a un uomo di sinistra, però, cambia obiettivamente gli equilibri di potere a Milano. Se non per il Vaticano, certo per Comunione e liberazione. Che è già presente in forze nel capoluogo lombardo con il governatore Roberto Formigoni e i mille affari della Compagnia delle opere. Ma che, a questo punto, potrebbe insistere per controbilanciare il potere del sindaco di sinistra con un arcivescovo vicino alla propria sensibilità come Scola. Oppure optare di mangiare la foglia e tentare di stringere con Palazzo Marino un patto di non belligeranza. Il timido appoggio dato a Letizia Moratti in campagna elettorale sembra andare in questa direzione.
E se anche Cl scaricasse il “suo” cardinale, la partita ecclesiale milanese si sbloccherebbe. Magari con una sorpresa. Perché c’è già chi scommette che sono entrati in pista gli outsider, ossia candidati rimasti sinora a margine dalla competizione ma che, come accadde per l’inattesa scelta di Carlo Maria Martini, potrebbero entrare alla fine e sparigliare la partita: il vescovo-teologo di Chieti Bruno Forte, il Custode di Terra Santa Pier Battista Pizzaballa, il vescovo “martiniano” di Como Diego Coletti. Nomi molto diversi tra loro che hanno però un dato fondamentale in comune: non sono di Comunione e liberazione.