L’eurozona sta vivendo il suo periodo più difficile dalla sua nascita. Mentre l’Eurogruppo continua a non trovare una soluzione per la sofferenza greca, aumentano sempre più le voci di una imminente fuoriuscita dalla moneta unica di uno Stato membro. Chiaramente, il principale indiziato è Atene. Come ha ricordato il settimanale tedesco Der Spiegel, l’euro ha mostrato tutta la sua debolezza in questa fase acuta di criticità sistemica. Troppe le incertezze nella gestione dei focolai di crisi, troppa la leggerezza utilizzata nelle fasi di creazione e controllo delle bolle. La conseguenza è che la strada intrapresa dall’Europa pare essere senza via d’uscita.
L’eurolandia di oggi ricorda lo scenario che Alan Greenspan, ex governatore della Federal Reserve, aveva di fronte intorno al 2006. Come per il mercato immobiliare statunitense, imbottito fino all’inverosimile di mutui subprime frutto di concessioni creditizie sempre più spinte, l’Europa ha vissuto per oltre un decennio al di sopra delle proprie possibilità. Lo dimostra la crescita dei debiti pubblici negli ultimi dieci anni e, in particolare, negli ultimi quattro. Se da un lato è vero che la crisi finanziaria nata dai subprime ha di fatto gambizzato i governi, costringendoli a irrorare di liquidità le proprie banche per evitare un crollo sistemico, dall’altro è altrettanto vero che queste mosse erano solo il preludio per qualcosa di ben peggiore del fallimento di un istituto di credito. Dal too-big-to-fail di matrice bancaria siamo infatti passati al too-big-to-bail di stampo statale.
La Grecia non è che la punta dell’iceberg. Il suo debito complessivo, circa 350 miliardi di euro, è una goccia nel mare della sofferenza debitoria dell’Ue. Come Atene, anche per il Portogallo si può fare lo stesso ragionamento. Diverso è invece il discorso per l’Irlanda, dato il più elevato grado di finanziarizzazione. La crisi di Dublino è infatti prima di tutto finanziaria, conseguenza diretta dell’assunzione di troppi rischi da parte degli istituti di credito del Paese a fronte di una struttura troppo debole per sostenerli. I bailout hanno poi innescato la miccia del debito sovrano, esploso a colpi di deficit.
L’Europa non è quindi solo Atene. È soprattutto Francia e Germania, ovvero le economie più esposte sulla Grecia. Nonostante le raccomandazioni alla calma di burocrati e governanti, lo scenario che si sta prefigurando lascia poco spazio all’ottimismo. Il rollover, cioè il concambio dei bond in scadenza mantenendo lo stesso nozionale di esposizione, a cui sarà sottoposta la Grecia con ogni probabilità è solo il preludio. Come ricorda Der Spiegel, i soldi utilizzati finora per sostenere le esigenze di rifinanziamento di Atene finiranno e dovranno intervenire gli investitori privati, come sostiene da tempo anche il ministro tedesco delle Finanze, Wolfgang Schäuble. La girandola, spiega il settimanale tedesco, metterebbe però in discussione l’architettura centrale dell’Europa, cioè l’eurozona.
All’aumentare del malcontento per la situazione debitoria ellenica, aumenterebbero le spinte per far uscire uno o più Paesi dalla moneta unica. Se già ora studi legali ed economisti (pochi, invero) stanno già discutendo di questa opportunità, significa che l’opzione non è poi così remota. I costi di una estromissione dall’euro, con conseguente ricreazione di una valuta nazionale, sarebbero però insostenibili per chiunque. Eppure, sembra che l’ipotesi stia prendendo sempre più piede, almeno in Germania e Regno Unito, dove perfino il sindaco di Londra, Boris Johnson, ha sottolineato che Atene dovrebbe uscire dall’eurozona dopo aver dichiarato la propria insolvenza.
In principio c’è stata la Grecia, poi l’Irlanda, infine il Portogallo. Il piano di salvataggio ellenico varato nel maggio 2010 da Ue, Banca centrale europea (Bce) e Fondo monetario internazionale (Fmi) doveva, in origine, arginare il contagio della crisi debitoria. La storia ci ha mostrato che, non solo l’obiettivo non è stato raggiunto, ma l’endemicità della situazione ha raggiunto un tale livello da permettere la nascita di ipotesi drammatiche come la fine dell’eurozona. E la sofferenza europea non è ancora conclusa.
C’è poi infatti l’Italia. Finora si sono sprecate parole per spiegare che Roma non avrebbe subito alcun attacco ribassista perché gli investitori avevano già prezzato i quattro elementi in cui la nostra penisola è lacunosa: elevato debito pubblico, crescita anemica, assenza di riforme e immobilismo politico. Eppure, qualcosa è mutato nelle ultime settimane. Sia Standard & Poor’s sia Moody’s hanno lanciato un pesante monito al Governo italiano, mettendolo in guardia dal possibile contagio della crisi ellenica.
L’impressione, anche in questo caso, è che fra Bruxelles e Francoforte manchi la consapevolezza dei rischi che si stanno correndo. Se perfino un pesce piccolo come la Grecia può causare «molti più danni del crac di Lehman Brothers», come ha ricordato anche il membro della Bce Jürgen Stark, possiamo solo ipotizzare la devastazione derivante dal crollo di una nazione come Italia o Spagna. Mancano soluzioni concrete per la gestione ordinata degli ostacoli che l’Ue ha di fronte. E le voci di una disgregazione dell’eurozona non sono altro che il segnale più limpido di questa tendenza suicida che ha assunto l’Europa.