In Italia dal nido del cuculo non esce più nessuno

In Italia dal nido del cuculo non esce più nessuno

AVERSA – Quando si è tolto la vita, Mircea aveva 58 anni, gli ultimi otto dei quali passati all’interno dell’ospedale psichiatrico giudiziario (opg) di Aversa. Si è ucciso il 12 aprile, impiccandosi nel bagno della cella che condivideva con altri internati. Solo ventiquattr’ore prima gli era stata comunicata l’ennesima proroga dell’internamento. Quello che gli ospiti degli ex manicomi chiamano in gergo “stecca” e che nei fatti non è altro che un ergastolo mascherato. E i casi simili a questo, all’interno degli opg italiani, non mancano. 

Si stima che almeno il 40 per cento dei circa 1500 pazienti internati in queste strutture sia dimissibile, ma restano dentro «per mancanza di alternative». In pratica non c’è nessuno disposto ad accoglierli: né le famiglie, che spesso nemmeno ci sono, né le Asl, che non hanno i mezzi e la volontà per farlo. In tali casi, il magistrato competente non può che decidere per la proroga.

«Si tratta di un incredibile paradosso – afferma Dario Stefano dell’Aquila dell’associazione Antigone – Se sei sano di mente, ricevi una pena a termine e una volta che l’hai scontata sei un uomo libero. Se invece soffri di disturbi psichici, allora vieni prosciolto – perché incapace di intendere e di volere – e tuttavia vieni sottoposto a misure di sicurezza, che sono di fatto prorogabili all’infinito».

In Italia esistono tuttora sei opg. Da Barcellona Pozzo di Gotto, in provincia di Messina, a Castiglione delle Stiviere, in Lombardia, passando per i due campani (Aversa e Napoli), Montelupo Fiorentino e Reggio Emilia. Strutture per lo più sovraffollate (oltre 1500 internati a fronte di 1300 posti disponibili, secondo i dati dello scorso anno del ministero della Giustizia) e quasi sempre fatiscenti. Fornite di personale scarso e che, nelle pratiche adoperate, non si distaccano di molto dagli ex manicomi criminali, che pure dovevano rimpiazzare. Di fatto – come denunciano da tempo associazioni e istituzioni italiane e comunitarie – gli opg sono vere e proprie strutture penitenziarie, dove la via contenitiva e farmacologica rappresenta la norma, e la pratica terapeutica è solo una lontana utopia.

In alcuni posti l’equiparazione di fatto al carcere ha anche una rappresentazione fisica. Come a Reggio Emilia e a Napoli, dove l’opg si trova all’interno degli istituti penitenziari veri e propri. Ma ancora più grave è l’equiparazione che trova evidenza tutti i giorni all’interno delle singole strutture, attraverso l’assenza di cure e mediante abusi e maltrattamenti.

Dovunque manca il personale a sufficienza. E non scarseggiano solo i medici e gli psichiatri ma anche le guardie penitenziarie. Tanto che non è raro che per sorvegliare i soggetti più a rischio si ricorra al sistema del “piantone”. In pratica, in mancanza di personale apposito, il compito di sorvegliare i soggetti a rischio viene affidato a un altro internato, ritenuto più “affidabile”. Se ne è parlato nei giorni scorsi, sempre nell’opg di Aversa, quando un detenuto con precedenti per autolesionismo è sfuggito alla sorveglianza del suo piantone ed è morto per soffocamento. In quell’occasione la direttrice dell’opg campano Carlotta Giaquinto ha manifestato il proprio «sgomento», precisando tuttavia che «con la cronica penuria di personale che abbiamo, a fronte di 240 internati, l’unica possibilità è di utilizzare un sistema come quello del piantone».

Come ha avuto modo di sottolineare in seguito anche la Commissione parlamentare di inchiesta sull’efficacia del sistema sanitario nazionale, quello creato all’interno degli opg italiani è «una sorta di inferno organizzato». La stessa commissione, presieduta dal senatore del Pd Ignazio Marino, cita i casi di internati abbandonati da 25 anni, persone legate nude al letto di contenzione, di condizioni fatiscenti e stanze che puzzano di urina.

L’unica struttura che sfugge in parte a questa rappresentazione è quella di Castiglione delle Stiviere, che però rappresenta un caso a sé, in quanto non è mai stata direttamente dipendente dal ministero della Giustizia e si è sempre configurata come struttura essenzialmente sanitaria, senza nemmeno la presenza di personale di polizia penitenziaria.

L’emblema in negativo è invece è quello del più antico opg italiano, il “Filippo Saporito” di Aversa. Non è un caso che, nel 2008, il Comitato europeo per la prevenzione della tortura e dei trattamenti e delle pene inumani e/o degradanti del Consiglio d’Europa (Cpt) abbia scelto proprio la struttura aversana per la sua ispezione in Italia. Al termine dell’ispezione, lo stesso Cpt definì quella di Aversa una situazione «inimmaginabile». Per farsene un’idea, tuttavia, è sufficiente citare alcuni dati. A partire da quello relativo ai suicidi, per il quale la struttura campana vanta un record assoluto. Solo negli ultimi cinque mesi si sono registrati tre decessi per suicidio più un altro classificato come «accidentale» e di cui vanno ancora chiarite le cause. Ma se si considerano gli ultimi cinque anni le morti avvenuti per cause diverse arrivano almeno a venti.

Tra le regioni principali di questo fenomeno, secondo le associazioni, un peso importante va attribuito al sovraffollamento. La capienza “normale” stimata per l’opg è di 150 unità, ma al momento gli internati sono 240 e fino allo scorso aprile sfioravano le trecento unità. Proprio il ripetersi di suicidi ha spinto di recente le autorità a trasferire una parte degli internati, ma la situazione resta fortemente a rischio. E a dimostrare la gravità del “caso Aversa” ci sono anche le diverse inchieste aperte dalla magistratura.

Lo scorso gennaio la procura di Santa Maria Capua Vetere ha notificato alla direttrice penitenziaria Carlotta Giaquinto un avviso di garanzia per omissione d’atti d’ufficio e maltrattamenti, mentre il direttore sanitario Adolfo Ferraro ha ricevuto – oltre ai precedenti – un avviso di garanzia per truffa per assenze sul posto di lavoro. In precedenza, a novembre, i carabinieri dei Nas avevano sequestrato la farmacia dell’ospedale «per le gravi irregolarità riscontrate», ponendo l’attenzione in particolar modo sulla prescrizione di metadone che avveniva senza controllo medico e, dunque, in maniera illegale.

Più di recente, invece, a marzo, un’altra indagine ha portato all’arresto di due agenti di polizia penitenziaria dell’opg, accusati di aver perpetrato abusi su un transessuale internato nella struttura. Significativa la nota firmata dal procuratore di Santa Maria Capua Vetere, Corrado Lembo, ad accompagnamento degli arresti, in cui si affermava che «le condotte ipotizzate appaiono di particolare gravità in quanto commesse nell’ambito di una realtà detentiva assai più drammatica di quella carceraria».

Paragonabile ad Aversa è forse solo la struttura siciliana di Barcellona Pozzo di Gotto, inaugurata dal ministro Rocco, guardasigilli del governo Mussolini nel 1925. L’istituto sconta un grave problema di sovraffollamento (380 internati a fronte di 200 posti previsti) che ha spinto i responsabili della struttura a usare anche letti a castello, esplicitamente vietati per legge. Ma l’ispezione effettuata lo scorso anno dai Nas ha messo in luce anche «l’assenza di cure specifiche, l’inesistenza di qualsiasi attività educativa o ricreativa e la sensazione di completo e disumano abbandono del quale gli stessi degenti si lamentavano. I degenti – si legge nel rapporto del nucleo dei carabinieri – oltre ad indossare abiti vecchi e sudici, loro malgrado, si presentavano sporchi e maleodoranti. Il tutto nell’assoluta indifferenza».

A complicare le cose contribuisce il fatto che la struttura faccia capo alla Regione autonoma Sicilia. Per tale motivo, l’opg di Barcellona è il solo in Italia a non essersi conformato alla riforma del 2008 che ha sancito il trasferimento della sanità penitenziaria al sistema sanitario nazionale, e resta tuttora dipendente da ministero della Giustizia.

A Napoli, nell’opg ospitato presso il carcere di Secondigliano, le condizioni strutturali sono migliori. Ma anche qui non mancano i casi di detenuti abbandonati nonostante abbiano ottenuto parere favorevole alla dimissione, come Leonardo Marco, che – a fronte di una misura di 24 mesi – è internato da ben 25 anni.

A Reggio Emilia l’opg è ospitato in un ex carcere, all’estrema periferia della città, ed è anch’esso caratterizzato da un grave sovraffollamento. La struttura accoglie infatti 290 detenuti contro una capienza regolamentare di 135 unità. In celle di nove metri quadrati sono ospitati anche nove detenuti.

A Montelupo Fiorentino l’opg è ospitato in una villa medicea del cinquecento, in cui vivono 170 persone. A marzo un internato di 28 anni è morto mentre stava inalando del gas per sballarsi. A quanto pare, la pratica viene seguita da molti detenuti, ma a volte diventa mortale. 

(1 – continua)

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