In principio fu Napster. In soli due anni di attività, dal giugno 1999 al luglio 2001, ha cambiato per sempre la rete e l’industria culturale. Dieci anni dopo, a guardare i dati di Cisco System sul futuro della rete, si intuisce che qualcosa sta cambiando, progressivamente. Nel 2009, più di un terzo del traffico consumer era dedicato al file sharing. Fra tre anni, nel 2014, la percentuale sarà del 17%.
Sarà quindi un web diverso, quello del futuro. Molto legato al consumo di contenuti video e in generale allo streaming, tanto che, per Cisco, nel 2014 saranno un miliardo le persone che “guarderanno” qualcosa sul internet. Una rete molto più veloce, ovviamente, rispetto a quella dei tempi di Napster. Ai tempi del primo programma peer-to-peer erano necessari 3 minuti per scaricare un file mp3 da 3 mega, oggi ci vogliono 5 secondi. Questo chiaramente dove non ci sono problemi di qualità e larghezza di banda.
Gli ultimi dieci anni della rete sono stati gli anni del peer to peer. La pirateria, “scaricare” qualcosa è diventato sinonimo di violazione del copyright. Ci sono state, negli Stati Uniti, le cause della Recording Industry Association of America contro persone accusate di aver scaricato pochi mp3. Poi sono arrivati iPod e iTunes, mezzo e “mercato”. Wired ha scritto che il web è morto, e che il nostro futuro sarà fatto di sistemi chiusi.
Tornando al p2p, c’è chi come Roberto Braga si occupa di trovare «possibili strategie per utilizzare la pirateria come uno strumento di promozione». È un ricercatore, laurea al Dams seguita da un dottorato e un interesse per «capire se la pirateria aveva degli effetti negativi sull’industria culturale». Viene a sapere di Working Capital, iniziativa di Telecom Italia che sostiene start up e progetti di ricerca, fino ad ora 14 neo-imprese e 70 ricerche. La sua, portata avanti con Giovanni Caruso, è una di queste.
«Ricevuto un finanziamento di 20 mila euro, la ricerca è ora alle sue fasi iniziali». Spiega che il punto di partenza è non considerare la pirateria come un nemico, ma come un’opportunità: la necessità è di cambiare paradigma. «Può favorire modelli di business emergenti. L’idea è che la pirateria possa creare forme di passaparola e condivisione che spingano consumi su altri canali o forme di redditività diverso dall’acquisto». Siamo anni luce dalle campagne come La Pirateria è un reato dal claim fin troppo facile: «Non ruberesti mai un auto». Stesso tono dei rapporti di Univideo e Sapav, dove anche per l’edizione 2011 si parla di «piaga della pirateria». «Le mie posizioni sono molto lontane dalle loro», dice Braga.
«In Italia siamo ancora un po’ retrogradi, mentre negli Stati Uniti qualcosa si sta muovendo. L’industria culturale americana è un po’ bipolare: da una fa partire cause legali, ma dall’altro cerca di capire come sfruttare la pirateria». Gli effetti delle politiche come le cause legali «non hanno effetti concreti. Anzi, la pirateria non si ferma ed è un esborso inutile: sarebbe meglio spendere in ricerca per capire come far fruttare la pirateria».
Video killed the radio star, cantavano i Buggles. Trentadue anni dopo, l’industria culturale lamenta che il file sharing la sta uccidendo. «A livello micro-economico, la pirateria non ha effetti rilevanti sulle varie industrie. Di sicuro, non quelli che vengono denunciati dall’industria stessa. Le ricerche indipendenti sconfessano in particolare i numeri sulle sostituzioni di acquisto». Cioè le copie, fisiche o meno, pagate contro quelle scaricate. A riprova, uno studio della London School of Economics, Creative destruction and copyright protection, sostiene che «L’industria musicale e gli artisti dovrebbero innovare e riconnettersi con i propri fan che condividono piuttosto che trattarli come criminali. Dovrebbero riconoscere che ci sono anche altre ragione per il proprio declino oltre alla condivisione di contenuti protetti da copyright».