ISTANBUL – Erdogan sì, ma non troppo. Anche a costo di frenare le riforme e salutare l’Europa. Il risultato delle elezioni politiche turche, che si sono svolte ieri, potrebbe essere riassunto con questa semplice frase. Il premier turco islamico-moderato ha conseguito un consenso plebiscitario, il 49,9% dei voti, che però, con quattro partiti in parlamento, gli dà diritto a 326 seggi su 550. Sufficienti a formare il governo da solo, ma non a portare a termine le riforme costituzionali da soli, per le quali ci sarebbero voluti almeno 330 deputati. Per ironia della sorte a fermare la corsa dal premier verso la riscrittura della legge madre dello Stato, è stata proprio quella legge elettorale che pone al 10% lo sbarramento per l’ingresso in parlamento, che Bruxelles ha criticato più volte e che Erdogan non ha mai voluto cambiare.
L’opposizione è in rimonta generale e per ciascuno dei tre partiti si può parlare di un risultato sorprendente. Il Chp, il Partito repubblicano del popolo, di orientamento laico, ha sfiorato il 26%, 5 punti in più rispetto alle ultime elezioni dove non aveva certo brillato quanto a catalizzazione consensi. I curdi hanno fatto il botto e mandano in parlamento il maggior numero di deputati di sempre, ben 36. Il Mhp, il Partito nazionalista ha dimostrato che il suo elettorato conservatore è a prova di scossone, visto che, nonostante lo scandalo sessuale in cui è incappato nel mezzo della campagna elettorale, è riuscito a mantenersi ben al di sopra del 10% richiesto e a portare in parlamento 53 deputati.
Doveroso ricordare che tutti e tre i partiti sono incappati in “incidenti di percorso” durante il loro cammino verso le urne, che avrebbero potuto pesare anche sui risultati elettorali. Il Chp da alcuni episodi di corruzione a Smirne, località dove i laici sono i padroni di casa da decenni. Il Mhp con la diffusione di alcuni video hard che coinvolgevano suoi dirigenti, mentre i curdi hanno rischiato di non potersi candidare a causa di un cambio di normativa, mai completamente chiarito, da parte della Commissione elettorale. Tutti e tre i partiti hanno puntato il dito contro Erdogan e il suo Akp, accusandoli di essere i mandanti morali degli episodi.
Nonostante questo e la campagna elettorale al veleno, non è un’esagerazione dire che la democrazia turca ha saputo autoregolarsi e che ha raggiunto il migliore dei risultati possibili per il popolo della Mezzaluna. Ma il Paese rischia di pagare questo maggiore bilanciamento democratico e il fatto che ora in parlamento c’è un opposizione reale, con il blocco delle riforme, che avrebbero un’influenza negativa anche sui negoziati di ingresso in Unione Europea, già in fase di stallo.
Il popolo si è espresso e il premier Erdogan ha vinto e formerà il suo terzo esecutivo consecutivo monocolore. Quindi la goverabilità del Paese è garantita. Ma per le riforme di volta in volta il premier dovrà cercare consensi da una delle formazioni dell’opposizione, che partono prevenute nei suoi confronti e che, stando a rumors che sono circolati in questi giorni, su alcuni argomenti particolarmente sensibili potrebbero anche creare una piattaforma comune di opposizione. La partita adesso è nelle mani del premier, che prima ancora di formare il governo deve decidere quanti sia disposto a scendere a patti.
Lui forse avrebbe preferito un risultato diverso, prendere meno voti e più seggi, a quel punto però sarebbe passato alla storia come Erdogan il Sultano. Gli basti la consolazione che se dovesse riuscire a intavolare un dialogo costruttivo con l’opposizione e arrivare a riforme con larghe intese, allora potrebbe essere ricordato come il secondo grande statista della repubblica moderna dopo Mustafa Kemal Atatürk.