Segni: «Questi referendum privi di proposta politica»

Segni: «Questi referendum privi di proposta politica»

«Nei primi anni Novanta noi abbiamo tracciato una strada, oggi hanno solo aperto una breccia». Nessuno, più di Mario Segni, ha legato la propria carriera politica all’istituto referendario. Nel 1991 il suo quesito sulla preferenza unica alla Camera diede il via al declino della Prima Repubblica (con buona pace degli inviti di Bettino Craxi ad «andare al mare»). Due anni dopo – sempre con un referendum di Segni – l’Italia abbandonò il sistema proporzionale per il maggioritario. Il successo delle consultazioni su acqua, nucleare e legittimo impedimento «è stato il frutto di una grande voglia di partecipazione e un desiderio di cambiamento» riconosce oggi. «Ma sono privi di qualsiasi proposta politica». 

Onorevole Segni, è andato a votare?
Certamente.
Quattro Sì?
Non proprio. Sul quesito relativo alle centrali nucleari, ad esempio, ho votato no.
Anche lei era convinto che dopo tanti anni si sarebbe tornati a raggiungere il quorum?
Sono sincero, avevo captato una gran voglia di partecipazione. Un forte desiderio di cambiamento.
Non dimentichiamo che l’ultimo referendum valido risaliva al 1995.
Su questo la devo correggere. In realtà noi raggiungemmo il quorum anche nel 1999 (il quesito prevedeva l’abolizione della quota proporzionale nelle elezioni della Camera dei deputati, ndr). Per il mancato raggiungimento del 50 per cento dei voti furono decisivi i quasi due milioni e mezzo di italiani residenti all’estero. Che allora, però, non potevano votare per corrispondenza come oggi. A conti fatti in quella consultazione avremmo superato il quorum con il il 53 per cento.
Facciamo un altro passo indietro. I suoi referendum del ’91 e del ’93 sancirono la fine della Prima Repubblica. Crede che oggi l’Italia possa archiviare l’epoca di Berlusconi?
Onestamente tra quell’esperienza e i referendum di oggi c’è una differenza fondamentale. Quei voti non erano il frutto di una voglia di cambiamento, di protesta. Non solo, almeno. I quesiti del ’91 e del ’93 esprimevano una grande proposta politica. Sancivano il fallimento del sistema proporzionale e chiedevano di passare al maggioritario. Noi volevamo portare in Italia un nuovo tipo di democrazia. Bettino Craxi fu sconfitto proprio perché si batteva contro questa proposta.
E oggi?
C’è stata un’importantissima manifestazione di malcontento. Una grande protesta. E basta. Il referendum si è fermato qui, non c’è stata alcuna proposta politica.
Niente di importante insomma…
Non ho detto questo. Nessuno può prescindere dalla grande spinta emotiva che ha accompagnato questi referendum. Diciamo così: nei primi anni Novanta noi abbiano tracciato una strada. Oggi si è solamente aperta una breccia.
Intanto è sempre più difficile capire chi siano i veri vincitori.
Questa è un’altra grande differenza tra i referendum del 1991 e 1993 e quelli di oggi. All’epoca il movimento referendario era unico. Ora mi sembra un organismo collegiale, con tutti questi comitati.
In realtà parlavo dei partiti politici.
Che vuole che le dica? La sconfitta è sempre orfana, ma la vittoria ha molti padri. Politicamente parlando, comunque, questo referendum ha dato un segnale molto chiaro. È ovviamente sulla stessa linea di quella tendenza già emersa nelle scorse amministrative e nei ballottaggi.
Il leader del Pd Pierluigi Bersani chiede le dimissioni del Governo. Eppure fino a pochi mesi fa non la pensava allo stesso modo dei referendari, almeno sull’acqua. 
Onestamente non credo che Bersani abbia cambiato idea sulla privatizzazione dell’acqua. Forse ha solo colto il valore politico che nel frattempo ha caratterizzato questo referendum.
L’opposizione festeggia, il Governo paga dazio. E il terzo polo? Lei nel 1999 fondò l’Elefantino con Gianfranco Fini. Come vede la nuova svolta politica del presidente della Camera?
Ho molti dubbi. Mi spiace dirlo, ma quella che Fini ha intrapreso mi sembra una strada senza sbocchi. 

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