La manovra finanziaria italiana è stata accolta con molta freddezza dai mercati internazionali. Il monito più duro arriva da Standard & Poor’s, che spiega a chiare lettere come le misure adottate dal Governo italiano non sono sufficienti a ridurre il rischio di un declassamento. Ma cresce il malumore negli ambienti finanziari, dopo i 47 miliardi di euro di tagli lineari e non strutturali, come richiesto dagli investitori. In Italia, Piazza Affari festeggia grazie al comparto bancario, ma sul mercato obbligazionario la tensione non diminuisce.
Crescita anemica, debito elevato, instabilità politica. Sono queste le tre cause d’incertezza che hanno spinto la società americana a confermare la propria visione, negativa come quella di Moody’s. «Noi potremmo abbassare il rating sul breve e lungo termine sull’Italia», dice la nota. Esistono però delle condizioni senza le quali il downgrade non arriverà. «Se uno o una serie combinata di rischi si materializzassero, il peso complessivo del debito pubblico italiano potrebbe stagnare agli attuali alti livelli», spiega S&P. E in quel caso, il taglio sarebbe inevitabile. Ancora, sta aumentando il sentore di un ritardo nell’attuazione della correzione di bilancio. «Pensiamo che uno stallo politico prolungato possa contribuire a degli slittamenti finanziari», dice la nota dell’analista Eileen Zhang. Intanto, la società newyorkese ha espresso dubbi anche sul deficit italiano, stimato dal Governo al 3,9% del Prodotto interno lordo, in netto calo rispetto al 4,6% segnato nel 2010.
In realtà c’è qualcosa che deve preoccupare di più Standard & Poor’s. Entro l’inizio del 2014, il 42,8% del debito pubblico italiano andrà a maturazione. Dovrà quindi essere rifinanziato, sperando che i tassi d’interesse dei rendimenti promessi non siamo eccessivamente onerosi. Nei giorni scorsi ci aveva pensato il presidente di Confindustria, Emma Marcegaglia, a parlare di quanto costa il contagio greco. «100 punti in più di spread coi Bund tedeschi equivalgono a 16 miliardi di euro di deficit», ha detto il numero uno degli industriali. Dopo il massimo storico toccato la scorsa settimana, 223 punti base di differenza fra Btp e titoli tedeschi, dopo l’annuncio del Consiglio dei ministri qualcosa è cambiato. Lo spread è ripiegato stamane a quota 182 punti base sulle piattaforme Bloomberg, salvo poi risalire fino a 189 punti.
Secondo i dati di Standard & Poor’s nel 2012 andranno rifinanziati poco meno di 184 miliardi di euro. Soldi che occorrono all’Italia, ma che potrebbero riflettersi negativamente sui conti pubblici, dato che, al crescere del rischio Paese, crescono anche i rendimenti promessi agli investitori. Stesso discorso per il 2013, quando andranno a scadenza 123 miliardi di euro. «Le esigenze di rifinanziamento italiane sono ampie e non è detto che il clima sia positivo per Roma». Così, la società londinese Lombard Street research ha commentato nelle scorse settimane l’aumento del differenziale fra Italia e Germania. Nonostante questo, è stata una giornata di guadagni per le banche italiane, detentrici del grosso del nostro debito pubblico. In realtà, in mattinata era arrivato anche un report di Moody’s, proprio sui principali istituti di credito del Paese. Nell’ultima settimana UniCredit, Intesa Sanpaolo, Monte dei Paschi di Siena, Banca Popolare di Milano e Ubi Banca sono state infatti le più sotto tiro, soprattutto per via di alcuni grossi aggiustamenti di portafoglio. Nello specifico, Moody’s ha spiegato che il deterioramento del rischio d’insolvenza registrato negli ultimi sette giorni dalle banche italiane è stato il più ampio a livello internazionale.
Basterà la manovra di Tremonti per evitare il contagio? Secondo l’opinione della City no. Come spiega a Linkiesta Markit, la prima società al mondo di analisi sui derivati, ci sono già i primi segnali di una pressione contro il nostro Paese, direttamente proporzionale all’aumentare dell’incertezza politica. Guardando l’andamento dei Credit default swap, o Cds, cioè i derivati che prezzano il fallimento di un titolo, questa tendenza è evidente. Se è vero che servono a misurare il rischio d’insolvenza, è altrettanto vero che gli investitori non hanno accettato di buon grado l’attesa della correzione di bilancio di Tremonti. Al fine della scorsa settimana, secondo i dati della Depository trust & clearing corporation, la maggiore clearing house internazionale, sono stati negoziati 401 contratti Cds sull’Italia per 9,8 miliardi di dollari. È stata la settimana più attiva dell’anno per il nostro Paese, che può tristemente vantare il primato mondiale dell’entità dei Cds sul proprio debito, ora a 23,7 miliardi di dollari di nozionale netto per 7.739 contratti attivi. Preoccupa il calo di questo valore, un mese prima pari a 25,4 miliardi di dollari. In molti stanno chiudendo posizioni, forse per evitare una rapida escalation al ribasso. Difficile dargli torto.