Augusto S. Cacopardo non è né un agente segreto né un Navy SEAL americano. Eppure conosce bene le gelide valli pakistane, e ha attraversato, da solo e a piedi, l’Afghanistan.
“Mi sono laureato in antropologia culturale. – racconta a Linkiesta questo pacato studioso siciliano, professore di etnografia all’Università di Firenze – La mia tesi di laurea è stato il primo viaggio di ricerca che ho fatto in Pakistan, nel 1973 (anche se ero già stato in Afghanistan nel 1971)”.
Il professore è tra i massimi esperti mondiali dei kalasha, piccola comunità agropastorale stanziata nel Pakistan settentrionale, a nord delle famigerate Federally Administered Tribal Areas (FATA). Le sue ricerche si sono svolte sotto l’egida dell’Istituto Italiano per il Medio ed Estremo Oriente, grazie ai finanziamenti di CNR e Ministero degli Esteri. Non è difficile capire il perché: i kalasha sono l’ultimo popolo pagano di lingua indoeuropea; ogni anno celebrano antiche feste, che vantano più di un’affinità con le cerimonie perdute dell’Europa pre-cristiana. Le isole greche e la Foresta Nera, però, si trovano a migliaia di chilometri a ovest…
Autore del saggio “Natale pagano” (Sellerio, 2010), Cacopardo ha parlato con Linkiesta dei suoi lunghi anni di ricerca nell’Hindu Kush, nonché dei cataclismi geopolitici che hanno investito Afghanistan e Pakistan negli ultimi decenni. Una testimonianza vivida, e lontana da qualsiasi resoconto convenzionale.
Professore, com’era rispetto a oggi l’Afghanistan del 1973, l’anno della sua prima spedizione nella terra dei kalasha?
Era un paese pacifico. Di certo non ricco, ma neanche povero se confrontato con l’India di allora. Facevo parte di una piccola equipe autofinanziata, i miei compagni di spedizione erano mio fratello Alberto e Manuela Borriello, una collega di università. In Afghanistan percorremmo strade diverse. Io attraversai da solo tutto l’interno dell’Afghanistan, dove non c’erano strade, ma solo piste. Niente pullman, passavano solo camion… Presi la pista che attraversava le montagne. Sa, al centro e lungo il confine orientale l’Afghanistan è, in sostanza, una catena di montagne.
Strano. Non c’erano tensioni?
La gente era molto ospitale, il Paese tranquillo. Allora nemmeno si immaginava quello che sarebbe successo. Certo, gli afgani erano musulmani tradizionalisti già prima dei talebani: le donne portavano tutte il burka. E infatti una delle fandonie diffuse negli ultimi anni è che il burka l’abbiano introdotto i talebani. C’era già da prima, io non ho mai visto il volto di una donna afgana negli anni Settanta. Solo a Kabul, nella zona della ambasciate, mi sembra di ricordare qualche gruppetto di studentesse a viso scoperto. Nel resto dell’Afghanistan, che io ho attraversato in lungo e in largo, no…
Durante quel suo primo viaggio riuscì a visitare le aree tribali pakistane (FATA), di cui si legge così spesso sui giornali?
Passato il Khyber Pass arrivammo a Peshawar, in Pakistan. Nel 1973 il viaggio via terra da Peshawar a Citral [dove vivono i kalasha] durava due giorni, c’era già l’aereo ma preferimmo fare il viaggio via terra, per vedere quello che c’era in mezzo. Non entrammo nelle FATA, ci fermammo al confine. Già allora era una zona in cui la presenza dello Stato quasi non si avvertiva, per entrare ci volevano dei permessi speciali, che le autorità non davano.
La spedizione del 1973 fu la sua prima visita nel Chitral, la terra dei kalasha. Come gli italiani, gli inglesi o i russi, anche i kalasha sono un popolo di lingua indoeuropea. Ma chi erano esattamente gli indoeuropei?
Si tratta di un concetto linguistico, non razziale. Se non altro perché la razza quasi non esiste, come ha dimostrato Luigi Luca Cavalli-Sforza. Il concetto di indoeuropei è nato grazie allo studio delle lingue europee e indiane, che si è scoperto avere tra loro dei collegamenti. È ormai convinzione diffusa tra i linguisti che queste lingue, cioè quasi tutte le lingue europee (a eccezione di quelle ugrofinniche e del basco) e molte lingue indiane, abbiano un antenato comune. Dove poi fosse parlata questa lingua “indoeuropea” è stato oggetto di dibattiti interminabili. L’Asia centrale è considerata da molti, ma non da tutti, l’homeland originaria di questa popolazione. Un filone di pensiero importante pone questa homeland a nord del Caucaso.
Perché i kalasha del Chitral sono così importanti?
Quello che ha inizialmente attirato l’attenzione degli antropologi è che sono un’enclave politeista in un mondo che si credeva islamizzato da secoli. In realtà studi successivi, inclusi quelli miei e di mio fratello Alberto, hanno dimostrato che questa islamizzazione è tardiva, e risale all’Ottocento. La conversione del politeista Nuristan (la regione afgana che confina direttamente con il Chitral) avvenne quando fu definito il confine tra l’Impero britannico e il regno dell’emiro afghano, nel 1893.
Si riferisce alla linea Durand, ancora oggi contestata da molti afgani e difesa a spada tratta dall’esercito pakistano?
Sì, mi riferisco alla famosa linea Durand, che ha causato e causa tuttora tanti problemi, perché divide una delle popolazioni più importanti dell’Afghanistan, i pashtun, in due: una parte vive in Afghanistan e una in Pakistan. Quando furono definiti i confini nel 1893, e fu stabilito una volta per tutte che il Nuristan faceva parte dell’Afghanistan, l’emiro afghano lanciò la sua jihad. Era armato dagli inglesi: senza il loro aiuto non sarebbe riuscito a piegare questa grande roccaforte politeista che nei secoli aveva respinto numerosi attacchi islamici, incluso quello di Mahmud di Ghazni. Non a caso Kipling ambientò lì il suo racconto “L’uomo che volle essere re.”
Interessante: i britannici armarono l’esercito islamico dell’emiro afghano, e quasi un secolo dopo gli Usa sostennero, seppur per motivi diversi, altri combattenti islamici, contro l’Urss. Ma torniamo ai kalasha, l’ultimo popolo indoeuropeo con una religione tribale.
Religione tribale è un termine che va usato con cautela. Giustamente gli antropologi non adoperano l’aggettivo “tribale” perché ha una connotazione negativa. Mi sembra però che sia l’unico modo di intendersi. I kalasha non possono essere definiti gli unici politeisti indoeuropei perché l’induismo, almeno quello popolare, è politeista. Sono però l’unico popolo di lingua indoeuropea che non si sia convertito al cristianesimo, o all’islam, o non sia oggi induista o buddista. Senza dubbio è un esempio unico.
I kalasha sono una comunità agropastorale, che celebra ancora antiche festività. Nel suo libro, “Natale pagano”, si sofferma in particolare sul ciclo festivo invernale.
Nella valle kalasha di Birir il ciclo festivo invernale è molto complesso, e dura quasi due mesi: dall’inizio di dicembre fino a febbraio inoltrato. Il suo fulcro è senz’altro la festa del solstizio, che culmina in una gara di corsa tra corridori che appartengono alle due metà della valle: bisogna raggiungere due cataste di fascine che si trovano presso l’altare del dio più importante della valle. Chi riesce a dare fuoco per primo alla sua catasta vince, e avrà poi fortuna durante l’anno. È un simbolo che ben si confà al solstizio invernale: l’idea è che nel momento in cui il sole deve riprendere il suo cammino gli si dà forza attraverso questo rito; si asseconda e si dà energia a questo nuovo corso del sole.
Tra i riti del ciclo festivo invernale kalasha particolare importanza riveste quello delle iniziazioni. È corretto?
Sì. Per circa tre giorni gli iniziandi, tutti ragazzi vergini, vengono separati dalla comunità. Sono loro a celebrare, alle primissime luci dell’alba, il rito più sacro: un olocausto. Sacrificano un capretto, le cui carni vengono lasciate bruciare proprio davanti all’ara della divinità della festa del solstizio. D’altra parte nel corso della festa si sacrificano molti altri caproni, ogni famiglia in cui c’è un iniziando ne sacrifica due o tre.
Lei ha intitolato il suo libro “Natale pagano”. Può indicarci un aspetto che avvicina il ciclo festivo invernale kalasha al nostro Natale?
Un tema importante della festa è l’arrivo di un dio, e questo ci avvicina al Natale. Si canta l’arrivo di una divinità che scende sulla Terra. Una divinità che alla fin fine, come si vede dal nome, in realtà non è altri che Indra, l’antico nume tutelare degli indoeuropei.
Alcuni sostengono che i kalasha, questa piccola comunità nel Pakistan settentrionale, discenderebbero dai soldati di Alessandro Magno, che nel 326 a.C. sconfisse il re indiano Poro nella battaglia dell’Idaspe, nell’odierno Pakistan.
Alcuni studiosi greci sono sostenitori di questa teoria, che oggi è molto popolare nella Repubblica ellenica. La questione ha anche dei risvolti politici, in quanto è da mettere in relazione con il conflitto che c’è con la vicina Macedonia per il nome stesso della Macedonia, ufficialmente conosciuta come Former Yugoslav Republic of Macedonia (FYROM). I greci non vogliono assolutamente che esista una Macedonia al di fuori della Grecia, e quindi se i kalasha si dicono greci nonché discendenti di Alessandro Magno vuol dire che la Macedonia deve essere parte della Grecia. Secondo me tale teoria è del tutto priva di fondamento: i kalasha non c’entrano niente con Alessandro Magno. Il grande condottiero arrivò in realtà più a sud, nella valle di Swat, e comunque queste popolazioni politeiste erano già lì. Non a caso Arriano ci racconta che quando i soldati di Alessandro giunsero nell’Hindu Kush credettero di essere giunti nella terra d’origine del dio Dioniso, Nysa, dato che questi politeisti coltivavano la vite e consumavano il vino. In generale la vegetazione di quelle zone, dopo i deserti dell’altopiano iranico, ricorda in qualche modo quella dell’Europa. Ci sono conifere, c’è l’edera…
I kalasha vivono nel Chitral, al confine con l’Afghanistan. Quale ruolo ha giocato la regione nelle vicende di quello sfortunato Paese?
Il Chitral è stato la retrovia del conflitto afghano nel periodo in cui c’era la guerra civile, tra l’Allenza del Nord e i talebani. Buona parte dei rifornimenti per l’Alleanza del Nord di Ahmad Shah Massoud, il Leone del Panjshir ucciso il 9 settembre 2001, passavano per il Chitral, attraverso il Dorah Pass. Anche i giornalisti occidentali che volevano parlare con Massud dovevano transitare dal Dorah Pass.
Lei conosce bene il Pakistan, dove ha trascorso molto tempo. Qual è la situazione lì oggi?
Ultimamente ho trovato molta preoccupazione. C’era meno tensione negli anni Settanta. Forte è l’ostilità nei confronti degli Usa, e di questo mi pare che se ne rendano conto anche gli americani. Gli attacchi dei droni statunitensi sono percepiti come una violazione gravissima della sovranità pakistana, e più volte Islamabad ha chiesto a Washington di porvi fine, perché le vittime civili sono troppe e il Paese non può permetterlo. Nei giornali pakistani le truppe della Nato in Afghanistan vengono spesso definite “le truppe straniere”, non “gli alleati”. Quando si usa tale terminologia…
Potremmo definire il Pakistan uno “Stato artificiale”?
Il Pakistan è molto variegato dal punto di vista linguistico e culturale. Il collante è dato dalla religione, dal fatto che i pakistani possono dire: “noi siamo tutti musulmani”. In fondo il Pakistan è nato così, come lo stato dei musulmani dell’India. In questo senso si può dire che sia artificiale, uno Stato simile non era mai esistito prima, e non ha alcuna omogeneità interna al di là da della religione. Molti Stati però sono artificiali, in quanto creati in circostanze politiche volute da alcuni e non da tutti. Nel caso pakistano fu forte la volontà di Muhammad Ali Jinnah e della Muslim League di creare uno Stato indipendente dall’India. Gandhi era contrario a questa partizione, perché pensava che non avrebbe portato la pace. Quello che è successo dopo prova che Gandhi aveva ragione… La zona è effettivamente una polveriera.
A Islamabad circola una battuta: i Paesi normali hanno un esercito, in Pakistan l’esercito ha un Paese. È così?
In Pakistan l’esercito gioca un ruolo fondamentale, l’ha sempre giocato.
Non dimentichiamo che Zulfikar Ali Bhutto fu vittima di un colpo di stato militare, e che poi i militari rimasero al potere per anni. E anche quando ci sono stati governi dalla forma democratica, i militari alla fin fine hanno sempre tenuto in mano le redini del Paese.
Qual è la sua opinione sull’annunciato ritiro americano dall’Afghanistan?
Secondo me è una mossa apprezzabile, sebbene proiettata in un futuro un po’ troppo lontano. Certamente non è la presenza delle truppe americane a poter risolvere i problemi dell’Afghanistan. Soprattutto perchè le truppe non sono desiderate. Questo è un dato che non appare tanto nella nostra informazione, ma non c’è alcun dubbio che la popolazione afgana non voglia la presenza di queste forze militari straniere. Io ritengo che la maggior parte della popolazione voglia la pace, ma che non pensi che la pace possa essere portata da quelle che molti considerano truppe di occupazione.
L’America sembrerebbe pronta a dialogare con i talebani moderati.
Intanto questa definizione di talebani moderati mi sembra un po’ bizzarra. Non perché i talebani siano tutti il peggio del peggio, ma semplicemente perché il termine “moderato” viene appiccicato a chiunque diventi amico dell’Occidente.
E anche se il movimento talebano è senz’altro vasto, non comprende tutti coloro che si oppongono alla presenza straniera in Afghanistan. Ci sono tanti afgani che si oppongono a essa senza essere legati ai talebani, e afghani che sostengono i talebani solo perché quest’ultimi si oppongono alla presenza degli stranieri, ma non sottoscrivono tutto il resto.
D’altra parte penso che il dialogo con i talebani (e anche i non-talebani) sia una necessità. Gli Usa e la Nato questo lo hanno capito anche perché si sono resi conto che militarmente non si può vincere questa guerra.
Quindi la situazione regionale sta, nel complesso, migliorando?
Il mio timore di fondo é che il ritiro delle truppe americane dall’Afghanistan sia da inserirsi in una nuova strategia americana tesa a mettere nel mirino il Pakistan. Non sono mancati gli avvertimenti, e il perdurare degli attacchi dei droni nonostante le ripetute proteste del governo pakistano e dei militari, non fa presagire nulla di buono. Obama é stato del resto abbastanza chiaro su questo punto (“non saranno tollerati rifugi per chi vuole ammazzarci”) , e anche Kerry ha scritto che “é l’ora di concentrarsi sulle vere minacce, quelle che provengono dal Pakistan”. Il che significa che i droni continueranno ad attaccare anche contro la volontà del governo pakistano. E’ uno scenario preoccupante, che potrebbe avere sviluppi nefasti per tutta la regione, e non solo…