La ricerca italiana brevetta un test per salvare i bambini

La ricerca italiana brevetta un test per salvare i bambini

La storia dell’ospedale pubblico Meyer è antica: dal 1884 ospedale pediatrico e successivamente Dipartimento di Pediatria dell’Università di Firenze. Proprio da questa unione è nata una ricerca e un brevetto sul test precoce per la diagnosi neonatale di una delle più gravi immunodeficienze congenite, dovuta dal difetto di adenosina-deaminasi. «Il punto vincente è stato questo: noi siamo in una struttura che vive fra ricerca e clinica. Io sono un medico e passo metà della mia giornata in laboratorio e metà in clinica», spiega Chiara Azzari, una delle tre firme di questa ricerca.

La ricerca, frutto della collaborazione fra Azzari, professore associato di Pediatria generale e specialistica dell’Università di Firenze, Massimo Resti Direttore dell’Unità Operativa Complessa di Pediatria dell’ospedale Meyer e Giancarlo La Marca ricercatore del Dipartimento di Farmacologia preclinica e clinica dell’Università di Firenze, ha prodotto un «test banalissimo dal punto di vista dei risultati, con un costo bassissimo, ma che cambia drasticamente la prognosi di vita di questi bambini», dice Resti.

Negli ultimi anni, c’è stato un superamento della divisione fra universitario e ospedaliero e figure come Resti, un ospedaliero, e la dottoressa Azzari, che si occupa di ricerca, lavorano sempre più spesso insieme. «Molto spesso quando la ricerca è staccata dalle esigenze del clinico ha una valenza meno immediata», ma per questa esperienza che ha prodotto fin da subito un brevetto,«l’ elemento vincente è stata la collaborazione continua fra il clinico esperto e il laboratorista», dice Resti.

Un’unione di figure diverse è la forza di questo modello, tutto pubblico. «Lavoriamo tanto, più di quanto previsto insieme a colleghi competenti e se ci viene in mente qualcosa, possiamo andare nel laboratorio di spettrometria, come nel nostro caso, e viene fuori una ricerca di gruppo», racconta Chiara Azzari. E se in precedenza «la cosa più bella era dire “abbiamo scoperto questo”», oggi c’è una maggiore consapevolezza sul fatto che una ricerca possa diventare una fonte di entrate che vanno a finanziare «assegni di ricerca per i nostri precari e l’acquisto di macchinari».

La ricerca e il brevetto, in questo caso, sono il frutto di un bando del 2009 della Regione Toscana, con un processo di selezione fatto da revisori che non lavorano con l’ente. «Noi siamo dipendenti di una struttura pubblica, quindi il brevetto è a metà fra ospedale e università», continua la Azzari. Il grande eco avuto dalla pubblicazione è dovuto anche al fatto che la ricerca è stata pubblicata sul Journal of Allergy and Clinical Immunology. «I bambini con questa immunodeficienza spesso muoiono entro un anno di vita a causa di un’infezione grave. Con questo test, si possono poi fare le terapie e i bambini possono tornare ad essere normali», e – sottolinea la dottoressa – «con una goccia di sangue che si preleva alla nascita si fanno, in Toscana, 40 ricerche. Con la modifica del metodo che abbiamo scoperto, se ne trova una in più, con gli stessi macchinari e gli stessi operatori».

Entrambi sottolineano «l’onore di poterlo fare nell’ambito pubblico». Tutti e due da anni (la dottoressa Azzari dal 1990, Resti da ancora prima) lavorano al Meyer, «oggi si comprende l’utilità di condividere con il mondo delle persone che fanno la verifica sulla propria pelle, e anche con i media». Anche perché, nel caso di questo test, si va a toccare le immunodeficienze congenite, malattie gravissime e rare. Il bambino nasce sano, ma contrae malattie infettive gravi dopo la nascita, per via del difetto di adenosina-deaminasi. «Con questa diagnosi, si capirà del vera incidenza di questo tipo di immunodeficienza» spiega la Azzari. Racconta anche che il team ha ricevuto telefonate da molte regioni italiane, «ora dobbiamo trovare un sistema per aiutare le altre regioni».

Per il team del Meyer, dopo la valorizzazione del brevetto, ci saranno altre ricerche: «Ci possono essere in alcuni momenti ricerche meno redditizie, pagate con ricerche che hanno avuto più ascolto nel mondo delle aziende. I fondi vengono redistribuiti, fra ricerche e precari», conclude la Azzari. «Il fatto che sia una struttura pubblica è meraviglioso. Lavorare insieme è stato il nostro gol nella vita. Una cosa possibile solo nel pubblico».

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