Al Cairo, sei mesi dopo la cacciata di Hosni Mubarak, non c’è traccia di primavera. I manifestanti di Piazza Tahrir sono tornati in strada e hanno promesso che andranno avanti malgrado le timide promesse di riforma annunciate dal primo ministro. Denunciano la lentezza delle riforme, chiedono processi più rapidi contro gli esponenti dell’ex regime e, soprattutto, sicurezza per tutti e giustizia per le quasi mille persone uccise. Manifestazioni simili si sono svolte a Suez, Ismailia e Sharm el-Sheikh. Sono le stesse persone che hanno dato vita alla rivolta egiziana, che chiedevano a gennaio pane, libertà e giustizia sociale e non hanno ottenuto molto dopo i successi iniziali.
Un semestre dopo, la condizione di rivoluzione incompiuta è davanti agli occhi di tutti e pesa. I problemi socioeconomici sono rimasti e anzi sono cresciuti, dal momento che le condizioni economiche del Paese sono sensibilmente peggiorate. La crescita prevista per il 2011 si è più che dimezzata attestandosi intorno al 2%, e già ora le componenti più dinamiche dell’economia egiziana (turismo, investimenti esteri, edilizia) mostrano segni di sofferenza. Un solo dato è esemplificativo: da gennaio a maggio il numero dei turisti è sceso di quasi la metà rispetto allo stesso periodo del 2010. Uno dei leader della giunta militare provvisoriamente al potere ritiene possibile e forse probabile una nuova «rivoluzione degli affamati» e avverte che le casse pubbliche saranno vuote nel giro di pochi mesi. I più colpiti sono infatti i ceti medi della scala sociale, in particolare le fasce più giovani, vale a dire i protagonisti della rivolta: per loro la primavera è finita ed è in arrivo un inverno pesante.
Dinamiche e problemi ben visibili anche dall’esterno. I Paesi del G8 hanno varato a maggio la proposta di un accordo di partenariato pluriennale proprio per far ripartire lo sviluppo egiziano. Nei prossimi giorni a Roma dovrebbero mettere a punto un intervento più strutturato. Il Fondo monetario internazionale ha concesso al Cairo un prestito iniziale di 3 miliardi di dollari, la Banca Mondiale ne stanzierà 4,5 per l’attuazione di riforme economiche che diano respiro all’economia del Paese. E anche Bers e Bei (rispettivamente Banca europea di ricostruzione e sviluppo e Banca europea per gli investimenti) si stanno attivando per intervenire a favore delle economie mediterranee. Anche nei Paesi dove non è in atto una vera e propria guerra civile, con conseguenze devastanti per l’apparato produttivo, la congiuntura si sta deteriorando e gli interrogativi sul futuro economico dei Paesi coinvolti fanno il paio con i troppi dubbi legati all’evoluzione delle dinamiche politiche interne.
Chiunque avesse pensato che la primavera araba avrebbe semplificato la cartina politica del Medio Oriente (come accadde in Europa dopo il crollo del Muro di Berlino) è rimasto deluso. L’instabilità cronica e la guerra civile, palese o latente, sono il risultato più evidente della reazioni dei poteri tradizionali contro le aspirazioni a una maggior democrazia. Dalla mancata primavera sta emergendo un quadro molto variegato, a geometria variabile. Egitto e Tunisia sono alle prese con una tortuosa transizione, Siria e Yemen, con le rivolte represse nel sangue e il rischio di una implosione interna; le ricche monarchie del Golfo reggono. Le monarchie non petrolifere, Marocco e Giordania, hanno optato per le riforme preventive per evitare le piazze.
Il primo e più evidente effetto della primavera araba è stato aver allargato la forbice delle diseguaglianze economiche nella regione. I Paesi del Golfo anche grazie al rialzo dei prezzi petroliferi sono riusciti a schivare la protesta democratica o a ridurre i danni. I Paesi non petroliferi, Egitto e Tunisia in testa, sono in sofferenza, buona parte di essi registrerà una crescita negativa. Per non parlare della fuga di capitali: 30 miliardi di dollari avrebbero già lasciato l’Egitto dall’inizio della primavera araba. Le riserve egiziane di valuta si sono contratte del 25%, il debito pubblico è salito al 75%. I Paesi in transizione verso una apertura democratica stanno già pagando la bolletta del cambiamento prima ancora di averlo realizzato e questo genera e spiega il nuovo malcontento.
I Paesi in trasformazione diventano più poveri, mentre quelli tradizionali e statici consolidano le loro ricchezze. La stabilità dell’Arabia Saudita e del Golfo è infatti un dato che la comunità internazionale non può mettere in discussione, sia per la propria sicurezza energetica che per il ruolo di baluardo anti-iraniano che questi Paesi svolgono. Analogo discorso potrebbe valere per la Siria, troppo pesante per cadere senza incontrollabili danni collaterali. La realpolitik impone di sostenere la democratizzazione di alcuni Paesi (in cui senza riforme sarebbe impossibile recuperare la stabilità) ma anche paradossalmente di favorire la conservazione in altri.
Le rivolte, in alcuni casi sedate nel sangue, stanno prendendo strade differenti, il soggetto politico si è spostato dalle piazze in più ristretti e selezionati consessi e la regione paga pesantemente la storica carenza di una classe dirigente in grado di trasformare le aspettative popolari e giovanili in reali conquiste, e di fornire alla protesta una dimensione politica. Oggi il destino della sponda sud del Mediterraneo è più nella mani dei potenti della terra che dei loro abitanti. Il pacchetto di aiuti nel periodo 2011-2013 si aggira attorno ai 40 miliardi di dollari, di cui 10 miliardi stanziati da alcuni paesi del Golfo come il Kuwait, il Qatar e l’Arabia Saudita.
La guerra di Libia ha probabilmente segnato lo spartiacque tra rivoluzioni e controrivoluzioni, tra primavere e autunni. Il timore si ripresentasse sulle sponde del Mediterraneo, e in un’area ricca di petrolio, lo spettro della grande Somalia ha messo la sordina alle accelerazioni democratiche. La prova di forza mostrata dalle reazioni dei regimi non intenzionati a mollare ha costretto la comunità internazionale ad intervenire direttamente di fronte al rischio di un caos generalizzato. L’eliminazione di alcuni autocrati agli inizi dell’anno aveva fatto sottovalutare le capacità di reazione del vecchio ordine e delle sue aderenze tradizionali e religiose. Non si passa dai clan tribali e dalle oligarchie economico-militari alla democrazia. Servono un embrione di Stato e una parvenza di classe dirigente in grado di legittimare la propria autorità e gestire la transizione. Condizioni spesso assenti nei Paesi del bacino del Mediterraneo. E ciò ha permesso che i petrodollari sauditi e le armi delle truppe lealiste contrastassero con successo la ribellione, spostando più in avanti la creazione di nuovi equilibri in cui democrazia e islam politico si coniughino.
Nei Paesi arabi non c’è stata una rivoluzione ma una serie di rivolte ha rotto uno schema storico fatto di passività e scarso interesse per la partecipazione politica. Si è aperta una finestra che ha sbloccato un orizzonte chiuso da decenni, ma l’esito delle rivolte non è scontato. La spinta verso la democrazia ha prodotto anche effetti collaterali. I regimi meno conservatori stanno timidamente aprendo alle riforme, facendo probabilmente di realtà virtù. Il re giordano Abdullah II ha annunciato di essere d’accordo con la richiesta dei manifestanti che i futuri primi ministri siano nominati e sfiduciati in Parlamento e non dal sovrano, anche se ritiene ci vorranno due o tre anni per arrivarci. Il Marocco di Maometto VI ha concesso una nuova costituzione che si muove in senso più democratico e promuove il berbero al rango di lingua nazionale accanto all’arabo. Un riconoscimento non da poco per le comunità berbere del regno (domenica scorsa migliaia di persone, oppositori e sostenitori delle modifiche costituzionali, in cortei distinti, sono scese in piazza a Tangeri, Rabat e Casablanca).
Difficile capire se riforme politiche reali possano avvenire in maniera pacifica. La prospettiva di un significativo passo in avanti sulla strada di una transizione graduale verso una monarchia costituzionale è messa in pericolo dalla mancata rinuncia delle vecchie monarchie a dar vita a un sistema politico che non sia gestito dal sovrano stesso. Esiste una contraddizione insormontabile tra la promessa di re Abdullah di Giordania di promuovere le libertà democratiche e la sua insistenza a voler mantenere il controllo della scena politica. Questo bisogno di controllare la vita politica dall’alto manda in frantumi il principio centrale delle rivolte arabe: che l’autorità suprema risieda nella volontà del popolo, e si esprime attraverso le istituzioni legittime dello Stato di diritto. La primavera araba, insomma, è ormai trascorsa, i risultati non sono all’altezza delle aspettative, ma il processo di disgelo politico è partito, peccato non sia chiaro quale sarà la prossima stagione politica.
Per approfondire:
La primavera araba: prima la speranza, ora la paura – Video