CITTA’ DEL VATICANO – Non proprio vicina, ma la Cina, rispetto al Vaticano, non era più così lontana. I rapporti diplomatici si sono interrotti nei lontani anni Cinquanta, con la presa del potere di Mao Tse-Tung. Ma negli ultimi anni si erano riaperti i canali tra due delle diplomazie più antiche del mondo. I segnali espliciti di distensione si sono accompagnati a discrete trattative per riavvicinare Roma e Pechino. La prudenza e la diffidenza non si sono mai diradate, ma l’appeasement procedeva sicuro, tra concerti offerti in Vaticano dalla Filarmonica di Pechino e passi avanti del processo di beatificazione del missionario gesuita Matteo Ricci. Fino a qualche mese fa. Fino a quando gli oltranzisti hanno prevalso sia a Pechino che in Vaticano. E il filo del nuovo corso si è spezzato.
Le provocazioni di Pechino si sono moltiplicate, i toni del Palazzo apostolico si sono irrigiditi. La crisi si avvita ogni settimana che passa sul tema delicato delle ordinazioni episcopali che – accompagnate da intimidazioni e veri e propri sequestri di persona degli uomini di Chiesa più fedeli a Roma – Pechino compie senza placet papale. Come quella avvenuta, da ultimo, il 14 luglio nella provincia dello Shantou. La Santa sede «non riconosce» il reverendo Giuseppe Huang Bingzhang, ha reso noto un comunicato diramato in italiano, inglese e cinese, «ordinato senza mandato pontificio e quindi illegittimamente» e che, per questo, «è incorso nelle sanzioni previste dal canone 1382 del Codice di Diritto Canonico», la scomunica latae sententiae.
La stessa reazione – dura, ma impotente – era stata innescata dai precedenti due strappi, l’ordinazione unilaterale avvenuta il 29 novembre nella provincia del Chengde, proprio nel giorno della festa dei santi Pietro e Paolo, e quella a fine giugno nel Leshan. E, prevedibilmente, lo stesso accadrà per le prossime ordinazioni che le autorità cinesi hanno già messo in cantiere e che, secondo i bene informati, potrebbero essere una ventina. Ogni volta, Pechino procede a spron battuto e il Vaticano risponde con condanne e scomuniche sempre più irritate. Ma, di rimando, la replica arriva da un portavoce di seconda fila del governo cinese, senza fretta e, soprattutto, senza retrocedere di un millimetro. Reazione scontata se si considera che Vaticano e Cina erano due potentati alla pari nei secoli passati, ma oggi i rapporti di forza non sono paragonabili. Forte di un’economia che cresce a passi da gigante e di un’influenza internazionale che spazia dal debito statunitense alle risorse africane, il Celeste Impero, per lo più, non contesta il Papa: lo ignora.
Se l’irrigidimento cinese è dettato dall’avvicinarsi di una fase di successione ai vertici del regime, la nuova leva diplomatica della Segreteria di Stato vaticana ha ormai scelto una posizione intransigente. Asianews, agenzia stampa del Pontificio Istituto delle Missioni Estere diretta dal battagliero sacerdote Bernardo Cervellera, vicino a Comunione e Liberazione, dà voce da anni alla linea “intransigentista” della Chiesa cattolica. E, con ottime fonti in loco, non manca di rivelare particolari scabrosi: ad esempio, in occasione dell’ordinazione di padre Paolo Lei Shiyin nel Leshan, il fatto che «il sacerdote sarebbe già padre di uno o due figli e sarebbe molto legato all`Associazione patriottica», l’organismo centrale della Chiesa cinese riconosciuta dal Governo cinese.
È araldo della linea oltranzista anche l’arcivescovo emerito di Hong Kong, Giuseppe Zen Ze-kiun, creato cardinale da Benedetto XVI nel concistoro del 2006. Il porporato ha comprato una pagina di inserzioni nel giornale di Hong Kong per fare appello al presidente cinese Hu Jintao e al premier Wen Jiabao per fermare quei «funzionari canaglia che violano la Costituzione dello Stato». In passato, Zen aveva denunciato, dalle colonne di Asianews, lo «stato disastroso» in cui versa la Chiesa in Cina a causa della Ostpolitik intrapresa in questi anni verso il gigante asiatico da parte della Santa Sede e, più specificamente, dalla congregazione per l’Evangelizzazione dei Popoli guidata, fino a pochi mesi fa, dal cardinale indiano Ivan Dias. Nello stesso dicastero, però, è arrivato di recente un nuovo segretario, il salesiano Hon Tai-fai, su posizioni ben più allineate al nuovo corso vaticano. È poi fautore della linea dura monsignor Ettore Balestrero, giovane presule portato in Segreteria di Stato dal cardinale Tarcisio Bertone nel ruolo di Sottosegretario per i Rapporti con gli Stati, ovvero viceministro degli Esteri del Vaticano.
Il numero due di mons. Dominique Mamberti ha sostituito il veneto Pietro Parolin,diplomatico di lungo corso, che, dal 2002 al 2009, nel ruolo ora ricoperto da Balestrero, si è rivelato abile negoziatore con i cinesi, così come con i vietnamiti o gli israeliani. Con Parolin i rapporti con Pechino sono lievitati. Sono stati archiviati gli screzi del passato, dalle precedenti ordinazioni episcopali unilaterali alla canonizzazione – voluta da Wojtyla nel 2000 e mal digerita da Pechino – di 120 martiri uccisi in Cina nel corso dei secoli «in odio alla fede». Con il paziente lavoro di Parolin ha visto la luce, nel 2007, una lettera di Papa Ratzinger ai cattolici cinesi che ha sancito la svolta dei rapporti diplomatici e che, in realtà, era in cantiere da svariati anni. Forte, forse, della cauta glasnost avviata dalle autorità cinesi in concomitanza con le olimpiadi di Pechino del 2008, con Parolin, a luglio del 2009, la Segreteria di Stato ha sfiorato il capolavoro diplomatico di un incontro tra Benedetto XVI e il presidente cinese Hu Jintao, giunto a Roma in quei giorni per partecipare al G8 dell’Aquila, ma poi precipitosamente rientrato in Cina per la crisi nel Xinjiang.
Mons. Parolin aveva però un difetto: apparteneva alla vecchia guardia dei diplomatici vaticani legati a figure come Casaroli, Sodano, Silvestrini e Pietro Sambi, nunzio apostolico negli Stati Uniti morto per complicazioni post-operatorie lo scorso 27 luglio. Nella logica dello spoil system, nonostante i suoi buoni offici, il Papa nel 2009 lo ha nominato nunzio apostolico nel Venezuela di Hugo Chavez, dove ora risiede, sebbene si sia fatto il suo nome per la nomina ad arcivescovo di Milano, ora assegnata al cardinale Angelo Scola, e anche per quella, ora vacante, di Patriarca di Venezia. Con la fuoriuscita di Parolin, ad ogni modo, hanno perso peso tutti i “dialoganti” con Pechino, dai gesuiti alla comunità di Sant’Egidio e alla vecchia guardia diplomatica.
Mons. Balestrero, da parte sua, ha preso saldamente in mano i rapporti – e gli scontri – con le autorità cinesi. A fine marzo scorso il prelato, accompagnato da mons. Gianfranco Rota Graziosi della Segreteria di Stato, ha incontrato una delegazione cinese composta da funzionari governativi e ufficiali dell’esercito in pensione appartenenti all’Istituto Cinese di Studi Strategici e Internazionali, una sorta di think tank con funzioni di diplomazia-ombra. L’incontro, che sarebbe dovuto rimanere riservato, si è svolto in un castello della Borgogna. Ma l’ospite, l’aristocratico francese Jean-Christophe von Pfetten, presidente del Royal Institute for East-West Strategic Studies, ha invitato ad assistere all’incontro anche un giornalista del Financial Times. Il quale ne ha riferito, con qualche sconcerto nei Sacri Palazzi, sulle pagine del quotidiano finanziario britannico.
Dal suo articolo emerge che, dopo due giorni di colloqui sulle relazioni della Cina con l’Europa e con il mondo, le due delegazioni, alla fine, hanno affrontato il tema dei rapporti bilaterali. Balestrero, a quel punto, avrebbe detto chiaramente che le relazioni diplomatiche con la Cina da parte del Vaticano possono cominciare solo se Pechino accetta che i vescovi vengano nominati dal Papa e non dal governo cinese. Ipotesi respinta nei fatti da Pechino. E, così, la crisi continua al buio.