Chiamale se vuoi coincidenze. Nel giorno in cui una furiosa Paola Concia parla di un’Italia omofoba che con il voto alla Camera ha decretato l’incostituzionalità del ddl proposto dalla deputata, muore a Lecce Maria Gioacchina Stajano Starace Contessa Briganti Di Panico, in arte Gio’ Stajano, il primo transessuale italiano a dichiararsi in pubblico e a operarsi, cambiando definitivamente identità. Aveva 79 anni, era originaria di Sannicola, nel sud del Salento, e da tempo era ricoverata in una casa di riposo. Alta quasi 1,90, occhi intensi, lineamenti forti, squadrati, fissati da molte operazioni chirurgiche, Gio’ aveva atteso oltre vent’anni per decidere di operarsi fuori dall’Italia.
Oggi persino le strutture pubbliche permettono di cambiare sesso senza spendere un euro. All’epoca l’esempio da seguire era Jacques-Charles Dufresnoy, alias Coccinelle, cantante e attrice francese, in assoluto primo personaggio del mondo dello spettacolo ad affidarsi nelle mani del chirurgo dello scandalo e dell’utopia, Georges Burou, che operava nella mitica Casablanca. Era il 1958, Stajano si sarebbe operata negli anni 80. Ma anche quel punto di non ritorno per Stajano era l’ennesima occasione da rilanciare il suo scandalo personale, lontano da qualsiasi idea di militanza gay. In una intervista dichiarò: «Il bisogno di esibirmi ha mosso tutta la mia vita: non ho mai agito per convinzione, ma per apparire».
Paradosso dei proclami della storia e di quei fascistissimi anni 30, Gioacchino Stajano, nato nel 1931 a Sannicola provincia di Lecce, era il nipote del gerarca Achille Starace, uno dei simboli della maschia gioventù italiana, segretario nazionale del Partito fascista, a cui tra l’altro venne presentato il Manifesto della razza nel ’38, e anche presidente del giovane Comitato Olimpico Nazionale Italiano. Stajano così raccontava di quel periodo l’ostinata reverenza che si doveva dare al nipote del gerarca: «Sono stato un Giovane Figlio della Lupa, Balilla, poi Avanguardista fino all’inizio della guerra. Mi facevano avanzare di anno in anno anche se non avevo l’età richiesta, ma dal momento che ero il nipote prediletto del Segretario del Partito». La cosa in famiglia non poteva passare inosservata e infatti, come ha raccontato a Gay.tv, il giovane Gioacchino venne sottoposto a una cura a base di ormoni di scimmia per riportarlo sulla retta via. Ma fu un esperimento fallimentare e anche il padre finì per arrendersi. Insomma «il vero fico del regime», come si intitola un documentario di Giovanni Minerba su Stajano, era lui.
Gioacchino arrivò a Roma nei primi anni 50: prima studente universitario di lettere e fiilosofia, poi giovane pittore, era il prediletto di Novella Parigini, la regina di via Margutta, conobbe De Chirico, Moravia, Guttuso, poi il Centro di Cinematografia «dove fui accettato grazie ad un parente, funzionario per la censura cinematografica». La sua guida protettiva, neanche a farlo apposta, era un deputato monarchico, Vincenzo Cicerone, «cha chiamavamo Zia Vincenza e mi portava in giro per Roma nei posti dove si potevano incontrare bei giovanottoni, praticamente tutti quelli in divisa che facevano la fila davanti alle case di tolleranza». Una vita al buio, tra cinema e teatri, però senza ipocrisia, alla luce del sole. Giò era una creatura coccolata da tutti per la sua ovvia stravaganza e disponibile a qualsiasi tipo di serata. Iniziò così la vita dissoluta e lussuriosa di Gio’ Stajano.
Non fu un semplice capriccio giovanile, ma durò molto. «Due terzi della mia vita sono finiti al macero, a inseguire maschi deludenti. Ad abbrutirmi nel buio dei cinema. Tutto il resto è avvenuto nei ritagli di tempo». Non contenta di far parte di questa movida romana, folle e gaia, Cafonal ante litteram, divenne scrittrice. Senza rovelli di stile e impronte glamour. Il resoconto delle sue notti era molto più asciutto di quanto ci si potesse aspettare. Ma non meno crudo. E infatti per molto tempo i suoi libri furono disponibili solo all’estero mentre in Italia venivano messi sotto sequestro: «Roma capovolta», «Meglio l’uomo oggi» cambiato poi nel più innocuo «Meglio l’uovo oggi», «Roma Erotica».
Negli anni sessanta tenne una rubrica su “Men”, il settimanale per soli uomini creato da Adelina Tattilo di cui divenne poi caporedattore. Era una sorta di posta per gay. Riceveva lettere da ogni parte d’Italia. Tra i suoi lettori anche un giovane Nichi Vendola che le confessa di essersi salvato proprio grazie a quella rubrica. Scrisse per “Lo Specchio”, “Momento sera” e “Stop”. Ma era già diventata una celebrità per la partecipazione alla “Dolce vita” di Fellini dove recitava nel ruolo di Pierone, un ragazzone con gli occhiali da secchione e il maglione dolcevita che passa le dritte a Marcello, «quelli là hanno bevuto un Valpolicella». Ma le mossette e le moine, con un tono da parodia, che gli voleva imporre Fellini non piacevano a Gio’ che finì tagliato e non accreditato. Tra le tante leggende intorno al film, pare che sia stato proprio un bagno notturno nella fontana di Piazza di Spagna in compagnia di Novella Parigini, con imbeccata pagata ai paparazzi per finire sui giornali, a ispirare Fellini per quello con la Ekberg. Recitò nelle stesse parti dell’effemminato nei film di Steno, Corbucci, Risi, Sordi, Pingitore.
Artisti, nobili, scrittori, politici, imprenditori. Giò Stajano conosce tutti. Pietrangelo Buttafuoco ha raccontato sul Foglio che «quando nel 1961 scoppia lo scandalo dei balletti verdi, un’oscena storia di corruzione di minore che coinvolge pedofili aristocratici dell’altolocato ambiente bresciano, Giò Staiano viene convocato dai magistrati nella veste inedita di consulente. Lo scandalo dilagò in tutta Italia in una sorta di frociopoli nazionale. Lui arrivava come una Wanda Osiris tra i flash dei fotografi, in quanto esperto dei vizi umani».
Poi in età adulta, quando per molte persone è tempo di bilanci, anche fisici, Gio’ prende la grande decisione. «Mi sottoposi a un lifting facciale completo, mi dotai di protesi al silicone della quarta misura e infine andai a Casablanca. Per la mia famiglia fu quasi un sollievo: non ero più l’ambiguo personaggio “irregolare”. Mia madre mi chiamò per la prima volta “figlia mia”». Di lì un’altra vita: «Ero finalmente pronta a scatenare la mia rivincita su tutti i maschi dell’universo. Iniziò così il periodo più dissennato della mia vita: prostituta d’alto bordo e pornostar. Una vita riprovevole, che allora mi sembrava il massimo della femminilità. Poi però notai alcuni vantaggi: essendo donna, non pagavo più gli uomini che mi interessavano, ma misi un annuncio sul Messaggero e cominciai a farmi pagare dagli uomini: Fascinosa esperta in culinaria e golosità offresi». Di quella rinascita il simbolo è una foto irriverente di Stajano al premio Strega quando incrocia Giulio Andreotti e cerca di stringergli la mano. Nel 1992 pubblica un’autobiografia, «La mia vita scandalosa», per Sperling & Kupfer. Manca però una pagina ancora importante da scrivere.
A distanza da quindici anni da Casablanca, ormai caduta nell’oblio anche se riabilitata nelle versioni per tv e dvd della “Dolce Vita”, Gio’ stupisce ancora una volta sé stessa. Il suo personaggio è caduto nell’oblio e così si ritira nel convento delle suore di Betania del Sacro Cuore in Piemonte, in cerca di pace e serenità interiore. Il giorno prima della consacrazione a suora laica confessa la sua identità. Si aspetta l’ennesimo scandalo invece viene accolta e rassicurata. Non c’è bisogno di prendere in voti. Gio’ inizia un percorso di vita modesta, appartata, addirittura casta. Tanto è defilata che pochi se ne accorgono. Il ritiro spirituale nel suo paese in Salento viene raccontato in un libro nel 2007, “Pubblici scandali e private virtù. Dalla Dolce Vita al convento”, l’editore è Manni. Non passa inosservato. Viene chiamata persino da Paolo Bonolis al “Senso della vita”.
Ma è solo un’intervista dove dice di aver tagliato completamente i ponti con i tempi di “Roma capovolta”. Poi Gio’ ritorna nel suo paese, a casa sua, con Radio Maria accesa. Eppure furono proprio quelle capriole a farne un’icona del travestitismo italiano, lontano dall’idea della militante gay. In questo ricorda Sylvia Rivera, l’eroina di Stonewall che più volte aveva ricordato che quella notte di orgoglio era stata opera «delle checche e dei travestiti» e non di coloro che «erano rimasti nascosti allora e che adesso vengono a raccogliere gli allori di una rivoluzione».