Se l’Italia innova come Trento ce la fa

Se l’Italia innova come Trento ce la fa

TRENTO – Biologia sintetica. Lettura della mente. Tecnologie semantiche. Genomi sequenziati. Suona come un romanzo di Philip Dick, ma in Trentino è cronaca. Questa montagnosa terra di confine, con il cattolicesimo nel Dna, sta scommettendo sempre di più su ricerca e innovazione. Alla base di ciò la convinzione che in futuro solo la knowledge economy, cioè un’economia fondata sulla conoscenza, potrà assicurare quel livello di benessere a cui i trentini sono ormai abituati (il loro reddito medio è superiore a quello veneto o friulano).

La scelta di questa provincia autonoma di mezzo milione di abitanti, povera di materie prime, è condivisibile. In realtà il Trentino, con i suoi frutteti e i suoi masi (abitazioni agricole), non sembra la culla ideale per una knowledge economy. Nessuno penserebbe che qui lavorano quasi 2.650 tra ricercatori e tecnici (circa lo 0,52% dei residenti, rispetto allo 0,40% nazionale). O che dal 2000 al 2008 la spesa in ricerca e sviluppo (R&S) è più che raddoppiata, toccando l’1,25% del Pil: una percentuale superiore a quella della Lombardia (1,24%), dell’Italia (1,23%), e della provincia autonoma “gemella” Bolzano (0,57%).

La stessa Trento, neanche centododicimila anime, ha l’aria sonnolenta di una città del Nord-Est come tante. Quest’atmosfera provinciale, da grande oratorio a cielo aperto, la si respira soprattutto il giovedì mattina, giorno di mercato. Nel lindo centro storico si incrociano bancarelle che vendono miele, comitive di turisti, rosticcerie-mobili, massaie, studenti universitari. Una scena uguale la si potrebbe vedere a Vicenza o a Belluno. Solo che a Trento gli studenti universitari, qualche volta, hanno gli occhi a mandorla. O la pelle scura. O l’accento yankee.

Per capirne la ragione bisogna visitare una delle sette facoltà dell’Università di Trento. Prima nella classifica “atenei medi” del Censis, settima in quella del Sole 24 Ore, l’Università è tra le poche nostrane a figurare nei ranking mondiali.
Sia chiaro: se il Trentino vuole davvero diventare la prima knowledge economy italiana, l’eccellenza accademica è una strada obbligata. Non a caso l’ineguagliabile modello americano, la Silicon Valley, ha avuto la sua culla nella stessa contea della Stanford University, Santa Clara, e a un tiro di schioppo da Berkeley.

«L’Università nel suo complesso svolge un ruolo fondamentale, perché appunto crea e costruisce conoscenza» conferma a Linkiesta il professor Paolo Collini, preside della facoltà di Economia, e tra gli organizzatori di quel Festival dell’economia che ogni anno porta a Trento Premi Nobel, esperti, politici, guru.
Oltre a essere un «motore nella produzione di conoscenza» grazie alla ricerca di base e applicata, l’ateneo apporta capitale umano. Prezioso, soprattutto in una comunità piccola, e tendenzialmente autoreferenziale, come il Trentino. Come sottolinea Collini, «più del cinquanta per cento degli studenti non viene dal territorio circostante». Il 6% degli iscritti, poi, è straniero, contro il 3% della media nazionale.

Un ateneo cosmopolita, capace di attirare talenti da ogni parte del mondo, è basilare in una knowledge economy. Il 53% delle matricole della Stanford University è statunitense ma non californiano, e il 7% è straniero. Ma è tutta la Silicon Valley a essere un vero melting pot: nella contea di Santa Clara il 36% della popolazione è nata all’estero, contro il 27% della California e il 12% della media nazionale.

Talento è una parola chiave anche secondo Alessandro Garofalo, consigliere delegato di Trentino Sviluppo, l’agenzia creata dalla provincia per «favorire lo sviluppo sostenibile del Trentino». Garofalo è un manager, ma ha una laurea in fisica. Parla veloce, alterna il lessico dello scienziato a quello dell’imprenditore. Definisce il Trentino «un campus, un laboratorio». Cita il professor Richard Florida, il teorico delle tre T: talento, tecnologia e tolleranza, ossia la ricetta per far prosperare città, regioni e intere nazioni nell’era della creatività.

Al telefono con Florida (che è autore del libro The Great Reset, e direttore del Martin Prosperity Institute all’Università di Toronto) sottolinea quello che a molti è chiaro e cioè che «le persone di talento sono la forza motrice dietro ogni strategia economica efficace. Viviamo in tempi di immensa mobilità, e le persone, soprattutto i talenti più creativi, viaggiano molto». 

Le migliori menti del pianeta sono però assai esigenti. «La classe creativa cerca comunità che siano aperte, variegate, e ricche di attrattive (una scena artistica vibrante, buoni ristoranti, sicurezza e così via). Anche bellezza e autenticità giocano un ruolo». Con il Trentino, e il vicino Alto Adige, la natura non è certo stata matrigna: si pensi solo alle Dolomiti, patrimonio dell’Unesco. Trento vanta poi uno splendido patrimonio architettonico. Rovereto, che con i suoi 38mila abitanti è il secondo centro urbano provinciale, ha il Mart, uno dei musei d’arte moderna e contemporanea più interessanti d’Italia.
Anche le bellezze del Trentino esercitano quindi una grande attrattiva su ricercatori e professori stranieri. A maggior ragione quando hanno figli piccoli.

«Trento è una città molto carina per metter su famiglia» conferma il professor Sheref S. Mansy. Americano dell’Ohio, padre da soli sette mesi, in città è chiamato il “million dollar man”. Infatti ha usato il milione di dollari della Armenise-Harvard Foundation per creare, all’interno del Centre for Integrative Biology (Cibio) trentino, un laboratorio con un obiettivo sbalorditivo: costruire cellule sintetiche. Mansy, che ha lavorato con il Nobel 2009 Jack Szostak, non si pente della sua scelta: «Sono molto soddisfatto del personale nel mio laboratorio. Penso che il sistema educativo italiano sia buono. E Trento è un posto meraviglioso in cui vivere».

In effetti la qualità della vita nella provincia autonoma è molto alta, come riconoscono tutte le indagini. Tuttavia ci sono delle pecche. A differenza del modello Silicon Valley, che può contare su metropoli vivacissime come San José o San Francisco, sono tanti a trovare Trento «noiosa» e «senza brio». «Il venerdì sera o vai a dormire o vai a Verona» racconta, ridacchiando, un imprenditore.
Anche i collegamenti, ferroviari e stradali, non sono eccelsi. E poiché l’aeroporto di Trento non è commerciale, molti imprenditori in trasferta sono costretti a servirsi del Catullo di Verona, degli aeroporti lombardi o perfino di quelli austriaci e tedeschi. Nel complesso Trento sembra immersa in una sorta di beato isolamento. E questo può piacere poco a quella «classe creativa» essenziale, secondo Florida, per far decollare una knowledge economy. 

La tolleranza è un’altra delle tre T del professore americano. «La prosperità economica dipende dalla creatività culturale, imprenditoriale, civica, scientifica e artistica. Coloro dotati di questi talenti hanno bisogno di comunità, organizzazioni e concittadini che siano aperti a nuove idee e persone differenti». Da questo punto di vista il Trentino sembra far bene. Provincia “bianca” per eccellenza, ha una storica tradizione di accoglienza e tolleranza. Tra il 2000 e il 2010 gli stranieri a Trento sono quadruplicati: un dato inferiore, tra i capoluoghi provinciali, solo a quello di Venezia. E nell’ultima classifica del Cnel sulle regioni più “ospitali” per gli immigrati, il Trentino-Alto Adige si piazza al sesto posto.

La tecnologia è la terza T di Florida. «La tecnologia e l’innovazione sono componenti critiche dell’abilità di una comunità o di un’organizzazione di guidare la crescita economica. Per avere successo, le comunità e le organizzazioni devono poter trasferire la ricerca, le idee e l’innovazione in prodotti collocabili sul mercato. In questo le università sono fondamentali, e rappresentano un’istituzione chiave nell’era della creatività».

Oltre all’ateneo, Trento vanta altri centri di ricerca. Come la Fondazione Bruno Kessler (Fbk). Con più di 350 ricercatori, l’Fbk si occupa di information technology, di materiali e microsistemi, ma pure di scienze religiose e studi italo-germanici. Un connubio eclettico, che ben incarna lo spirito trentino.
Direttore del centro di information technology è Paolo Traverso. Ingegnere piemontese, esperto in intelligenza artificiale, si diffonde sulle tante aree di ricerca del centro: dalla costruzione di sistemi al linguaggio naturale, dall’interazione uomo-macchina a quella macchina-ambiente. «Abbiamo anche un gruppo molto forte nella traduzione automatica. Adesso la lingua che va per la maggiore, e capirà perché, è l’arabo» racconta divertito.

C’è poi il Centre for Computational and Systems Biology (CoSBI). Joint venture tra la Microsoft Research e l’Università, ha una quarantina di ricercatori da ogni angolo del globo. «Il CoSBI si occupa principalmente di una disciplina che si chiama systems biology – spiega il milanese Daniele Morpurgo, technology transfer manager – Noi facciamo simulazioni di sistemi biologici allo scopo di predirne comportamenti dinamici nel tempo.» Può sembrare accademia, ma non lo è: la systems biology ha vasti campi di applicazione, che spaziano dall’oncologia all’ecologia.  Per le loro simulazioni le teste d’uovo del CoSBI usano un cervellone che può compiere fino a mille miliardi di operazioni il secondo. Un’attività in silicio, come la chiamano loro, all’apparenza ben diversa da quella, terra terra, che si svolge all’Istituto Agrario di San Michele all’Adige (Iasma).
In Trentino il primario vale circa il 3% del Pil, e può restare competitivo solo puntando su qualità e innovazione. Ebbene, negli ultimi anni lo Iasma ha coordinato il progetto di sequenziamento del genoma del melo e della vite, e ha partecipato (unico istituto italiano) a quello della fragola.

Degno di menzione è pure il Centro Interdipartimentale Mente/Cervello (CIMeC), sparpagliato tra Trento e Rovereto. L’approccio interdisciplinare, tipico della ricerca trentina, è spinto al massimo in questo ente universitario dedicato alle neuroscienze. Vi lavorano medici, psicologi, biologi, fisici, informatici, ingegneri, linguisti: un melting pot scientifico e culturale, rafforzato dal fatto che circa il 20% dei ricercatori e la metà dei dottorandi è straniero. All’interno del CIMeC opera il CeRiN, guidato dal professor Gabriele Miceli. Al lavoro su un campo molto concreto, ma con un nome fantascientifico: il mind reading, ossia «cercare di registrare su apparati di vario genere le attività che il cervello mette in atto quando viene esposto a degli stimoli esterni. – spiega il romano Miceli – Anche un semplice elettroencefalogramma permette di distinguere fra le attività provocate nel cervello dalla presentazione di immagini di animali, e quelle determinate dalla presentazione di oggetti inanimati.» Le applicazioni, per esempio in campo diagnostico, sarebbero di rilievo.

Una knowledge economy, oltre alla conoscenza, ha bisogno dell’economia.
Il motore dello sforzo innovativo trentino è l’amministrazione provinciale, oggi più potente che mai: trattiene il 90% di tutti i tributi locali (e copre una parte altrettanto cospicua delle uscite).  In Trentino la spesa procapite in R&S del settore pubblico è superiore a quella italiana, e perfino a quella dell’eurozona. Qualcosa di raro in Italia, apprezzato da scienziati e docenti. Per il professor Giorgio Vallortigara, direttore vicario del CIMeC, «una provincia autonoma ha la possibilità di utilizzare la propria ricchezza, se ce l’ha, in vari modi. Ma la decisione di utilizzarla investendo nella scienza e nella conoscenza è una decisione che prendono i politici.»

Una scelta che sembra inizi a pagare. Secondo un recente studio, per ogni cento euro spesi dall’Università in un anno, il Pil trentino ha un incremento, nell’arco di un lustro, di quasi centosette euro. E nel caso dell’FBK di circa centoquattro. Da una parte il pubblico, dall’altro il privato. Per anni le imprese trentine, in maggioranza piccole e medie, hanno arrancato dietro l’attivismo dell’amministrazione provinciale. Le cose stanno un po’ migliorando: nel 2008 la spesa dei privati in R&S ha sfiorato i 70 milioni di euro, raggiungendo circa il 34% del totale, contro il 18% del 2003. Di certo ateneo e centri di ricerca stanno generando un humus fertile per le imprese Ict. O le stanno addirittura generando. È il caso della eCTRL Solutions, uno degli spin-off tecnologici dell’Fbk. Il suo amministratore, Adriano Venturini, è un ex ricercatore dell’Fbk che nel 2005 è passato al business del turismo online. «Stiamo avendo una crescita graduale. Tre anni fa il fatturato era di centocinquantamila euro, oggi è di trecentomila» racconta a Linkiesta nel suo laboratorio al Polo tecnologico di Trento.

A differenza di Venturini, molti laureati e ricercatori trentini continuano a preferire la (relativa) sicurezza del posto pubblico. A scapito delle aziende Ict in espansione.  «Purtroppo non è sempre facile accaparrarsi laureati dall’Università» chiosa Giuseppe Brambilla, direttore commerciale della filiale trentina del gruppo pugliese I&T. Mariangela Ziller di Dedagroup (gruppo Ict trentino) conferma: nel recruiting si fatica. Scarseggiano i cervelli, in questa provincia da mezzo milione di abitanti. Hanno difficoltà ad assumere perfino le aziende di un settore molto promettente ma ancora poco noto: quello delle tecnologie semantiche.

«Consideriamo un dialogo in cui uno degli interlocutori dice “A me piace molto la pesca; infatti affitto una barca tutte le estati” – spiega a Linkiesta una delle massime autorità in materia, Alberto Sangiovanni Vincentelli, professore a Berkeley nonché presidente del Cda del consorzio trentino Semantic Valley – Se noi ci focalizziamo sulla prima frase si potrebbe tranquillamente pensare al frutto e non all’attività del pescare. Facendo una ricerca su internet basata sul riconoscimento di parole come si fa ora, si potrebbe ottenere come risultato una lunga lista di siti che parlano del frutto. Ebbene, le tecnologie semantiche intendono dare risposte basate sul significato della frase.»

Queste tecnologie potrebbero avere un’immensa rilevanza economica. E in questo campo il Trentino parte avvantaggiato, perché «da anni si è fatta ricerca ai massimi livelli europei e mondiali – assicura Vincentelli – Di conseguenza si è formata una “scuola” di semantica che ha prodotto studenti e ricercatori in numero tale da far massa critica e creare quindi nuove imprese.» Tra le imprese del settore c’è la Cogito, nata da una costola della modenese Expert System. «Cogito si è insediata a Rovereto non a caso, proprio per sfruttare il contesto molto prolifico del Trentino, dei suoi centri di ricerca, delle sue competenze specifiche nella gestione dei contenuti e delle tecnologie linguistiche» dice il direttore generale Filippo Nardelli, architetto trentino prestato all’informatica.

Nardelli, come molti altri manager, imprenditori e ricercatori sentiti da Linkiesta, è abbastanza ottimista sulle possibilità del Trentino di trasformarsi in una knowledge economy.  Vincentelli, che nella Silicon Valley vera ci lavora da una vita, spiega: «Certamente il Trentino tra tutte le province italiana è una di quelle che hanno la maggiore potenzialità di trasformarsi in una knowledge economy.» Gli ingredienti, a suo parere, ci sono: un ottimo ateneo, un’amministrazione provinciale che punta su ricerca e innovazione, imprenditori vivaci, la presenza di centri di ricerca quali l’Fbk.

In realtà perfino alcune storiche debolezze trentine potrebbero essere trasformate in punti di forza. Trento, per esempio, è periferica rispetto al resto d’Italia, ma non lo è rispetto alla Germania, motore dell’economia europea. Il territorio montuoso ha sempre impedito un vero sviluppo industriale, e reso difficili i collegamenti. Ma anziché strade d’asfalto oggi si possono costruire autostrade digitali: a febbraio la provincia e Telecom hanno siglato un memorandum d’intesa per realizzare una rete di telecomunicazioni in fibra ottica di nuova generazione, che coprirà il 60% del Trentino.

Ma per far decollare la knowledge economy trentina serve molto altro.
Prima di tutto serve pazienza, perché come sottolinea Alessandro Santini, responsabile dell’area ricerca e innovazione della Confindustria locale, si tratta di qualcosa che non si costruisce «in un paio d’anni». Serve più capitale umano, per fare massa critica. Mancano venture capitalist e business angel. C’è una scarsa cultura del rischio. E c’è il rischio che molte start-up non riescano a sopravvivere senza un costante sostegno pubblico.

«Siamo una realtà piccola, non possiamo pensare di far tutto. Dobbiamo scegliere i settori giusti, specializzarci. Evitare di competere con chi ha dimensioni, e numeri, ben più grandi» spiega il romano Gianluca Salvatori, a capo di “Manifattura domani”: un progetto che, sulla scia di quelli in corso nel profondo Sud statunitense, sta convertendo gli spazi ottocenteschi dell’ex Manifattura Tabacchi di Rovereto in un polo delle neuroscienze, dell’Ict e soprattutto dell’edilizia sostenibile (uno dei settori più vitali dell’economia trentina).

Forse il Trentino non diventerà mai una piccola Silicon Valley delle Alpi. Forse le priorità politiche cambieranno, forse il boom della semantica non si verificherà.  Quello è che certo è che la sfida della knowledge economy è una sfida che riguarda tutta l’Italia. Ed è una sfida che non si può perdere.
 

(prima pubblicazione: 19 aprile 2011)

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