Luca Fantacci insegna Scenari economici internazionali e Storia, istituzioni e crisi del sistema finanziario globale all’Università Bocconi di Milano. Distinguished Visting Fellow presso il Christ’s College di Cambridge, il professor Fantacci ha recentemente curato una raccolta di saggi di Keynes, intitolata Eutopia – Proposte per una moneta internazionale e ha pubblicato, insieme a Massimo Amato, Fine della Finanza. Da dove viene la crisi e come si può pensare di uscirne. A lui abbiamo chiesto lumi sulla situazione finanziaria che sta destando la preoccupazione di risparmiatori, politici, investitori di tutto il mondo.
Professore, che cosa sta succedendo da qualche settimana nelle borse?
Niente, e proprio questo è il problema. Non c’è un solo fatto nuovo che giustifichi il terremoto finanziario delle scorse settimane: dalle difficoltà di Obama con il Congresso alle fragilità fiscali dell’Europa, tutto era già presente e noto. Perfino il downgrading degli Usa era già stato più volte preannunciato. Per non parlare dei debiti pubblici, che hanno potuto crescere per anni senza preoccupare nessuno. Davvero, non è successo niente di nuovo e sconvolgente.
Nulla di cui preoccuparsi, dunque?
Tutt’altro. È proprio questo terremoto in assenza di novità il dato allarmante, su cui è opportuno riflettere: se oggi, senza motivo, i mercati finanziari tremano, vuol dire che fino a ieri erano spavaldi, ugualmente senza motivo. Niente giustificava i guadagni di ieri, così come niente può spiegare le perdite di oggi o i recuperi di domani. I mercati finanziari dimostrano di avere sempre meno un criterio attendibile per distinguere fra quando va bene e quando va male, fra chi va bene e chi va male.
Una finanza che vive in un mondo che ha poco a che fare con la realtà?
Non mi riferisco a una semplice scollatura tra finanza ed economia reale. È perfettamente legittimo, e anzi necessario, che il valore di borsa di un’azienda possa discostarsi temporaneamente dall’andamento corrente dei suoi affari. Perché la borsa, per sua natura, guarda avanti: guarda ai profitti futuri, non a quelli attuali; esprime aspettative e può sbagliarsi. Ma, affinché questo gioco di scommesse abbia un senso, bisogna che almeno due condizioni siano rispettate. Primo, occorre che a un certo momento una linea sia tracciata e i conti siano fatti. Bisogna che finisca la gara, in modo che si veda chi ha scommesso sul cavallo vincente. Secondo, occorre che l’esito della corsa non sia condizionato dall’andamento delle scommesse. Ma questo è proprio ciò che non avviene in borsa, dove non si verifica né la prima né la seconda condizione.
Cosa intende dire?
È molto semplice: gli andamenti dei valori di borsa non riflettono più alcun tipo di “fondamentale”, non si basano più su alcun giudizio in merito alla solidità economica o politica dell’emittente. Nei momenti di massima volatilità, come in questi giorni, siamo tutti d’accordo a dire che “basta un nulla” per scuotere i mercati e che a tenere il campo sono le aspettative che si autorealizzano. Tanto è vero che si parla comunemente, anche sulla stampa finanziaria, di “speculazione” e si dà per scontato che è il mercato finanziario a dettare l’andamento dell’economia reale, perfino le sorti di interi paesi, e non viceversa. Ma c’è da chiedersi se, nei periodi cosiddetti normali, la maggiore calma non dipenda unicamente da una maggiore unanimità delle aspettative, da una maggiore tenuta delle convenzioni, da una maggiore stabilità emotiva. In finanza come in amore, rischiamo di essere in balia delle emozioni, attrattive o repulsive che siano: e quello che, fino a ieri, era visto come un investitore benefico, oggi è chiamato un avido speculatore, con la stessa volubile inconsistenza che fa apparire l’amante della sera prima come un’opportunista spregevole.
Il che non sembra molto rassicurante per le sorti del nostro Paese, finito anch’esso nel mirino degli “speculatori”.
Ecco, ciò che sta accadendo con i titoli del debito pubblico italiano è un buon esempio del carattere autoreferenziale dei mercati. I buoni del tesoro possono anche essere visti come un investimento nell’azienda-Italia. Ma, a dispetto di quest’orribile espressione, gli stati nazionali, a differenza delle aziende, non sono fatti per fare profitti e per remunerare i detentori dei titoli, non presentano un bilancio consuntivo, e non esiste alcun criterio certo sulla base del quale possano essere giudicati redditizi o anche semplicemente solvibili. Eppure, tutto ruota attorno a quel punto: la caduta del prezzo dei titoli di stato e il corrispettivo incremento del loro rendimento, e dunque l’ampliarsi del differenziale rispetto al rendimento degli omologhi tedeschi, i timori di un’ulteriore recessione, le preoccupazioni per la disintegrazione dell’euro, il crollo delle borse… tutto è stato scatenato dal timore di un possibile default dell’Italia.
Si tratta di un rischio concreto?
Questo è appunto il problema. Per poter rispondere, e magari assegnare un grado di probabilità all’evento, come si pretende di fare sul mercato, bisognerebbe poterne dare una definizione univoca. Ora, che cosa significhi essere “in default”, o “insolvente”, nel caso di un’impresa è chiaro: significa non essere in grado di pagare i propri debiti, ossia non avere attività sufficienti per far fronte alle proprie passività. Ma, sulla base di questa definizione, tutti gli stati sono insolventi! Nessuno stato è in grado di ripagare i propri debiti. D’altro canto, gli stati non sono nemmeno tenuti a ripagare i loro debiti. I debiti degli stati, da quando hanno preso la forma di titoli negoziabili sul mercato, ossia da poco più di trecent’anni, non sono più fatti per essere ripagati, bensì per essere continuamente rinnovati e per circolare indefinitamente. I titoli di stato sono emessi, sono acquistati e rivenduti ripetutamente sul mercato e, quando giungono a scadenza, sono rimborsati con i proventi dell’emissione di nuovi titoli.
In che senso, allora, si può parlare oggi di stati a rischio di insolvenza?
Il termine è utilizzato con un’accezione ben diversa, per riferirsi all’incapacità di uno stato di rifinanziarsi sul mercato a condizioni sostenibili. Si dovrebbe parlare, propriamente, non di “solvibilità”, ma di “sostenibilità” del debito. Ed è ben più problematico. Non soltanto perché il concetto è più vago, privo di una definizione univoca. Ma soprattutto perché il fenomeno che esso descrive è fortemente autoreferenziale. Infatti, quanto meno un debito pubblico appare sostenibile, tanto più costa allo stato indebitarsi; ma quanto più aumenta il costo del debito, tanto meno risulta sostenibile.
Un circolo vizioso che conduce gli stati sull’orlo del baratro.
Si tratta di un problema che è al tempo stesso politico ed economico. Quando uno stato, come l’Italia o la Grecia, accumula un tale debito nei confronti degli stranieri da dover rendere conto delle proprie decisioni ai creditori prima ancora che ai cittadini, allora si ha un problema politico: in che senso possiamo ancora parlare di una democrazia, quando a dettar legge non è il popolo né il parlamento né il governo, bensì una trojka internazionale Bce-Ue-Fmi, in rappresentanza degli interessi dei creditori? D’altro canto, quando la capacità di un debitore di ripagare i propri debiti dipende assai più dal grado di fiducia dei mercati che dalle proprie prestazioni, comunque le si voglia misurare, allora il problema è anche economico: in che senso si può ancora parlare di un investimento, quando il tasso di rendimento non ha alcun rapporto con alcuna misura, per quanto imprecisa, di produttività, ma dipende unicamente dal grado di sfiducia dei creditori? Sul piano politico, la concessione di crediti condizionati, subordinati all’adozione di determinate misure, come quelli che la Bce oggi concede all’Italia, non può essere letta che come l’instaurazione di un regime di sovranità limitata nel paese debitore. Sul piano economico, la concessione di crediti a tassi d’interesse del 16%, come quelli che oggi il mercato accorda alla Grecia, non ha altro nome che usura.
È la crisi dell’Europa?
Senza dubbio. Una crisi dovuta alla pretesa di costruire l’unione politica sull’unificazione monetaria. Ma il problema non consiste nel ritornello secondo cui “ha prevalso l’economia sulla politica”, piuttosto nel fatto che si è mancato di vedere il piano politico e il piano economico nella loro articolazione. L’unificazione economica e monetaria è già, in sé, un atto politico. Non c’è nessuna legge economica che ne detti la necessità, tanto meno la forma. Può essere realizzata in modi diversi: il mercato comune non implica necessariamente la moneta unica, la libera circolazione dei beni non comporta necessariamente il movimento indiscriminato dei capitali. Come mostra concretamente il precedente storico dell’Unione Europea dei Pagamenti che, negli anni ’50, ha assicurato ai paesi europei crescita, stabilità e integrazione economica, senza bisogno di una moneta unica. Viceversa, l’euro ha accordato un po’ di stabilità e un po’ di crescita, ma a costo di una crescente divergenza fra i paesi membri che oggi rischia di compromettere sia la crescita sia la stabilità.
E che cosa si dovrebbe fare?
Credo che sia opportuna una riforma radicale della governance dell’Unione Europea, come da più parti auspicato: una revisione del patto di stabilità, un emendamento dello statuto della Bce, e magari anche la ricostituzione dell’Unione Europea dei Pagamenti. Per gestire l’emergenza, ossia la crisi dei debiti pregressi, sono convinto che non ci sia altro da fare che consentire alla Bce di agire da prestatore di ultima istanza, acquistando titoli del debito pubblico dei paesi membri. E naturalmente, è bene che tali prestiti siano accompagnati da raccomandazioni ai governi che ne beneficiano, perché adottino politiche di rigore, in modo da arginare l’azzardo morale, ossia la tentazione del figliol prodigo di tornare a spendere, abusando della misericordia del padre. Ma sarebbe ben più efficace di qualunque raccomandazione se gli stati europei non potessero né dovessero continuare a contrarre nuovi debiti, emettendo titoli sui mercati internazionali.
Sembrerebbe un’utopia…
In verità, proprio questo sarebbe reso possibile se si mettesse in opera un’istituzione analoga all’Unione Europea dei Pagamenti, che fungesse da camera di compensazione multilaterale per i debiti e i crediti contratti tra paesi dell’eurozona. Questo avrebbe un duplice vantaggio. Primo, consentirebbe di distinguere il debito pubblico, che è un affare interno fra i cittadini e lo stato, e il debito estero, che è un rapporto fra paese creditore e paese debitore. Secondo, consentirebbe di apprezzare il fatto che il debito estero beneficia entrambi i paesi, poiché permette al debitore di acquistare ciò che altrimenti non potrebbe acquistare, ma permette anche al creditore di vendere ciò che altrimenti non potrebbe vendere. Se il sistema dei crediti fra paesi s’interrompe, ci rimettono entrambi. Non è un caso se la crisi del debito nell’Europa meridionale ha comportato anche un arresto della crescita in Germania, come registrano i dati di questi giorni. Se gli italiani non comprano, i tedeschi non vendono. Il mercato è aperto, ma nessuno ci va…
Quindi?
Quindi è bene che, a differenza di quanto oggi avviene, l’onere del debito non venga sopportato, economicamente e simbolicamente, soltanto dai paesi debitori. Mentre le nuove istituzioni create per gestire la crisi debitoria europea, come l’Efsf (European Financial Stability Facility) continuano a far gravare l’onere e l’onta degli squilibri sui paesi debitori, l’istituzione di una camera di compensazione europea consentirebbe di ripartire equamente l’onere dell’aggiustamento fra creditori e debitori.
Sta parlando di un’Europa senza euro?
No, la mia proposta non è affatto di abolire l’euro, ma anzi di difenderlo dai suoi stessi difetti, che oggi rischiano di portarlo alla dissoluzione. E, per far questo, occorre che sia affiancato, non sostituito, dalle monete nazionali, e magari anche da monete regionali e locali. Così l’euro potrebbe essere davvero soltanto un mezzo di scambio, per agevolare il commercio europeo. Ma, al tempo stesso, le economie locali potrebbero tornare ad avere una moneta adeguata e una reale autonomia politica, senza rinunciare all’apertura verso l’esterno. Altrimenti continueremo a sacrificare ogni comunità in nome della Comunità Europea, salvo poi sacrificare la Comunità Europea in nome del mercato globale.
Ma è una strada percorribile quella che propone?
Dal mio punto di vista, è l’unica via d’uscita plausibile da una situazione in cui gli stati hanno sempre meno margini di manovra e i mercati hanno sempre meno contatto con la realtà. A differenza di quattro anni fa, non possiamo più fare affidamento sull’intervento pubblico. Oggi l’alternativa a una riforma radicale non è l’intervento dello stato in economia, ma l’interferenza sempre più cogente e pervasiva del mercato finanziario nella vita politica. Infatti, stante l’attuale forma delle istituzioni economiche, l’unica politica concessa è quella che viene giudicata adeguata dal mercato finanziario, indipendentemente dal suo contenuto. E che cosa vuole il mercato? Niente di chiaro e definito. Vuole soltanto essere rassicurato. Le manovre dei nostri governi possono essere opportune e risolutive, oppure insensate e controproducenti, ma, in ogni caso, se il mercato le reputa adeguate, ricomincia ad acquistare i nostri titoli, i rendimenti scendono, e noi siamo salvi. Come l’autocrate totalitario descritto da Koestler, il mercato ha sempre ragione, purché non si metta mai in dubbio la sua parola, anche se dovesse dichiarare ad ogni istante una verità nuova.