L’Arabia Saudita arriva alle amministrative con due anni di ritardo. Ma neanche questa volta le donne potranno presentarsi ai seggi. Eppure nel giugno scorso il Consiglio Consultivo nominato dal re Abdullah aveva approvato una risoluzione a favore del diritto universale di voto, ma l’approvazione finale è stata rimandata al 2015, quando si tornerà ad eleggere le municipalità. Come già accaduto sei anni fa, nella prima tornata elettorale in quarant’anni di monarchia, anche il prossimo 22 settembre nove milioni di donne resteranno a casa.
Nel mezzo degli stravolgimenti in atto nel mondo arabo, con la Libia ad un passo dalla svolta, l’Egitto e la Tunisia in piena transizione, il regime wahhabita di Riyad sembra essere stato sfiorato, ma non investito dall’onda del cambiamento. Anzi, più volte si è imposto come una sorta di stabilizzatore nella crisi, forte dei legami con gli Stati Uniti e del ruolo chiave nel Consiglio di cooperazione dei Paesi del Golfo.
Le contestazioni interne sono state circoscritte non solo dall’estremo controllo preventivo e quotidiano che in Arabia Saudita viene messo in atto, ma anche grazie alla disponibilità economica che ha consentito di tamponare il malcontento e la richiesta di riforme politiche, in una popolazione con un alto livello di istruzione e un buon accesso alle nuove tecnologie. Dallo scorso febbraio in poi il re ha annunciato uno stanziamento di 36 miliardi di dollari a favore dei giovani in cerca di casa e occupazione, oltre a fondi per il sistema sanitario. In più ha istituito un comitato anti-corruzione per controllare il lavoro della pubblica amministrazione e un premio pari a due mensilità di stipendio per i funzionari pubblici.
Ma il fatto che Riyad non abbia avuto la sua piazza Tahrir non significa che siano mancate le iniziative di protesta, in un paese dove esiste ancora il reato di stregoneria, punito con la pena di morte, e dove una direttiva ministeriale impone di fare l’elemosina secondo precisi canali di raccolta, e vieta di aiutare i mendicanti per strada. In Arabia Saudita metà della popolazione non ha uno status giuridico autonomo perché le donne sono obbligate ad avere un tutore, solitamente il parente uomo più vicino, anche solo per poter uscire di casa: non possono portare con sé il proprio documento di identità, né guidare, né votare, né tantomeno candidarsi a ricoprire un ruolo politico. Proprio le elezioni sono oggetto di inviti al boicottaggio da parte di organizzazioni e attivisti per i diritti umani: per la mancata parità di diritti ma anche perché l’unica consultazione ammessa nel paese prevede l’elezione della metà dei membri dei 178 consigli municipali, mentre il resto dei consiglieri avviene a nomina diretta del regime.
Dal 23 aprile in poi, all’inizio delle registrazioni degli elettori, alcune donne hanno provato a presentarsi come elettrici, ma sono state rimandate a casa. Una di loro, Samar Badawi, ha presentato querela al tribunale della Mecca «per un diritto che è concesso anche ai detenuti», ha spiegato, ma il capo della commissione elettorale ha risposto che il paese non è ancora pronto per un simile passo, nonostante, come sottolinea Human Rights Watch, abbia ratificato nel 2000 la Convenzione per eliminare ogni forma di discriminazione nei confronti delle donne.
Nei paesi confinanti Riyad ha avuto un ruolo determinante nel sedare le rivolte e mettere un argine all’effetto domino delle piazze. In Bahrein, grazie all’influenza dei sauditi nel Consiglio di Cooperazione degli stati arabi del Golfo, il 14 marzo ha inviato un contingente di mille unità su mezzi blindati direttamente nella capitale Manama, per sgomberare la piazza presidiata da giorni dai manifestanti.
In Yemen, dove invece è il governo di Saleh a non rappresentare più una garanzia di stabilità, è sempre Riyad ad offrire un accordo di transizione tramite il Consiglio di cooperazione per fare in modo che il presidente possa abdicare in favore del suo vice Mansur Hadi. L’accordo non andrà in porto ma il presidente Salih resterà ferito nell’esplosione della moschea della sua residenza e sarà trasportato proprio in Arabia Saudita per essere curato. Nel frattempo la dinastia Saud avrebbe già aperto un fronte di dialogo con tutti i capi tribali yemeniti, per tenere sotto controllo una situazione potenzialmente esplosiva dove al momento nessuno sembra essere in grado di governare il paese.
Anche la risoluzione delle Nazioni Unite 1973 del 17 marzo per l’intervento in Libia non sarebbe stata possibile senza il consenso dei paesi del Golfo, che tra l’altro con Qatar ed Emirati Arabi partecipano alle operazioni militari a guida Nato. Una mossa per assicurare il benestare ad un’operazione comunque svolta a livello internazionale contro un paese membro della Lega Araba, seppure guidato da un personaggio imprevedibile come Gheddafi: un sostegno in contropartita per avere piena libertà e autonomia nelle operazioni volte a mantenere la calma nella penisola araba lungo i propri confini.