C’è chi dice che una leggenda non ha bisogno di vincere: il Manchester come il Barcellona e il Real Madrid non devono dimostrare nulla. Ma c’è un tempo in cui si deve vincere per diventare leggenda. Oggi Manchester è il terzo club al mondo per ricavi e il primo in Inghilterra con 286,4 milioni di sterline. Anche i debiti sono in proporzione ma i tempi dei pionieri in cui lo United era costretto a pagare l’affitto al City per giocare nel suo stadio, sono lontani. La città operaia dalle case rosse per i mattoni e i cortili stretti è cambiata.
Eppure prima dell’era dei Rooney, Giggs e Cantona, e prima ancora di sir Alex Ferguson, c’è stato un altro Manchester, con una maglia più scura, più vicina a quella del Torino, e un cammino meno facile. Nel 1945 lo United militava in seconda divisione e lottava per non retrocedere, era praticamente senza fondi. Fu un manager scozzese dalla faccia dura, Matt Busby, a voler puntare sui giovani. Nel 1948 arrivò la Coppa d’Inghilterra. Poi tre titoli che mancavano da 40 anni (1952, 1956 e 1957). Per Busby lo United era una missione, i giocatori erano considerati dei figli, i suoi collaboratori Curry, Whalley e il coach del settore giovanile Jimmy Murphy controllavano tutto, persino che i ragazzi andassero a messa. I “Busby Babes”, sorridenti e spacconi, furono la più giovane squadra inglese a vincere un titolo. Per i ragazzi di Busby iniziarono le prime trasferte europee. Nel 1957 furono fermati dal Real Madrid. L’anno dopo ci riprovarono.
All’aeroporto di Monaco il 5 febbraio 1958 il Manchester United, aspettava di ripartire dopo lo scalo tecnico. La squadra aveva appena battuto per 2-1 la Stella Rossa a Belgrado nell’andata dei quarti di finale della Coppa dei Campioni. Ma il bimotore, al terzo tentativo, probabilmente per le cattive condizioni atmosferiche, non riuscì a decollare e si schiantò in fondo alla pista. Sette giocatori morirono sul colpo: il capitano Roger Byrne, titolare in Nazionale da quattro anni; il centravanti Tommy Taylor, il ventunenne mediano Eddie Colman, l’ala sinistra e nazionale David Pegg; Billy Whelan, attaccante irlandese; il gigantesco stopper Mark Jones; il terzino di riserva Geoff Bent. Anche il possente terzino Duncan Edwards, ventuno anni, morì in seguito a ferite molto gravi. La lista si allungò con l’allenatore Tom Curry, il preparatore Bert Whalley e il segretario Walter Crickmer.
È stata la Superga del calcio inglese. Morirono anche il corrispondente del Daily Mirror Archie Ledbrooke e un altro cronista di nome Frank Swift, l’ex grande portiere del Manchester City e della Nazionale inglese. Dieci anni prima Swift aveva stretto la mano al centro del campo a Valentino Mazzola, prima di Italia-Inghilterra. Mazzola sarebbe morto un anno dopo. Uno dei pochi a salvarsi fu Bobby Charlton che rimase ferito. Lo shock per lui fu fortissimo ma è su Charlton che venne ricostruita la squadra. Con quella maglia rossa giocò in totale 758 volte, segnando 249 gol.
La tragedia di Monaco e quel Manchester dei pionieri rivivono ora in UNITED, un film dolente e bellissimo, presentato in anteprima al RomaFictionFest. Impersonato da Dougray Scott, il duro Busby ha l’aria da gangster, cappotto sulle spalle e cappello a nascondere quasi lo sguardo, mentre Jimmy Murphy ha il volto magro e spigoloso e lo sguardo intenso di David Tennant. Il ruolo di Bobby Charlton è affidato a Jack O’Connell, il giovane protagonista di This is England.
Il film arriva tre anni dopo le celebrazioni del cinquantenario che hanno coinvolto la città di Manchester. Il progetto è costato due anni di ricerche e soltanto quattro settimane di riprese. Lo hanno messo su due inglesi che non tifano Manchester: il regista James Strong è del Tottenham, lo sceneggiatore Chris Chibnall tifa West Ham. Quest’ultimo spiega a Linkiesta che «è la prima volta che si tenta di ricordare questo episodio drammatico. La figura di Murphy era completamente dimenticata. Avevamo paura che la storia scomparisse dalla memoria della gente. Abbiamo lavorato sugli archivi, le fonti, sulle testimonianze della tragedia. Non sempre le versioni concordavano». E Strong aggiunge: «Fu un evento dolorosissimo, che spinse moltissime persone a tifare Manchester dal giorno dopo».
In UNITED non c’è neanche un’azione di gioco. È una scelta precisa, spiega il regista: «Provare a far giocare a calcio degli attori ha sempre prodotto cattivi risultati. Fuga per la vittoria resta un bellissimo film ma in campo c’era Pelé». Il film preferisce utilizzare i resoconti di giornali e radio dell’epoca. Nonostante questo, UNITED non è una storia al buio. È lo spirito che conta: ruvido e romantico insieme, spartano e autentico. In realtà UNITED è la storia di un famiglia: «Non è un film sul calcio –continua Strong – ma racconta quello che normalmente rimane sullo sfondo di una vicenda calcistica. Quei ragazzi potevano anche essere dei soldati».
Lo stile del film è classico, pulito e dosa bene la retorica con il sogno. Lo spirito di solidarietà della comunità United è fortissimo: tra il manager e il team, tra l’allenatore e i suoi ragazzi, tra i sopravvissuti che aiuteranno il testardo allenatore a ricostruire da zero una squadra. Altrettanto forte il legame con la città che invierà soldi per evitare al club di fallire dopo la tragedia. «Non sappiamo se Wayne Rooney l’abbia visto, ma abbiamo fatto un’anteprima per i sopravvissuti e i famigliari delle vittime. Hanno detto che è stata la cosa più emozionante vista sugli schermi di Manchester. I tifosi più giovani si sono appassionati alla storia dopo averla vista in tv ad aprile. Su Twitter per qualche giorno sono girati i nomi di Matt Busby, Jimmy Murphy e dello sfortunato Duncan Edwards».
Con Bobby Chartlon in squadra e Murphy a cercare giovani promesse, il ruvido Busby arrivò undici anni dopo a conquistare la Coppa dei Campioni, spezzando il dominio dei lusitani e delle squadre milanesi. Contro il Benfica in finale segnò anche George Best. Un altro Manchester era ormai pronto. E quando trent’anni dopo il Manchester recuperò al 90° due gol al Bayern Monaco in finale di Champions, qualcuno pensò a una coincidenza: quella sera era il compleanno di Busby, scomparso cinque anni prima. Forse il vecchio mastino scozzese vegliava ancora sui suoi “busby boy”.