ISTANBUL – L’occasione è ghiotta e il premier turco Recep Tayyip Erdogan non se la farà scappare, perché per lui significa andare a riscuotere di persona un consenso che la Turchia sta calamitando da tempo nel Mediterraneo.
Fino a venerdì il primo ministro dell’unico Paese della Mezzaluna a vocazione europea sarà impegnato in un delicato tour nei Paesi protagonisti della Primavera araba. Il premier inizierà dall’Egitto, che dal punto di vista dell’equilibrio geopolitico, rappresenta la parte più delicata del viaggio. Successivamente si recherà in Tunisia e Libia. Rimane fuori dal tour la tappa a Gaza City, a cui Erdogan teneva particolarmente, ma che non è stata possible a causa di un mancato accordo con Il Cairo. Il viaggio ha prevalementemente un significato simbolico e politico, ma il primo ministro ne approfitterà anche per tenere le posizioni in campo economico che la Turchia aveva prima della Primavera Araba.
Erdogan arriva nella capitale egiziana quando i rapporti con Israele sono tesi tanto per lui quanto per il nuovo esecutivo che si è insediato dopo la caduta di Hosni Mubarak. Questo motivo di critica a Gerusalemme, unito alla visione neo ottomana della politica estera turca, che punta a una maggiore coesione del mediterraneo orientale e meridionale, saranno le due carte che il premier dovrebbe giocare nei suoi discorsi ufficiali, con i quali mira ad accreditarsi una volta per tutte come leader di riferimento in Medio Oriente.
I motivi per essere ambiziosi alla Turchia non mancano. Ieri è stato reso noto il dato di crescita economica del Paese, 8,8% nel secondo trimestre del 2011 rispetto al 2010, che va a fare il palio con 11% registrato nel primo trimestre e consacrando la Turchia come uno dei pochi Paesi a livello globale che cresce a tassi esponenziali quando il resto del mondo rischia la recessione. La stabilità del governo di Ankara, il benessere di cui gode il popolo turco, il tandem stato musulmano con governo laico fanno il resto.
Quindi, che Erdogan voglia fare il grande passo appare più che chiaro. Meno chiaro è come la Turchia gestirà questa leadership, nel caso in cui riesca a ottenerla a pieno titolo. Il Cairo vacilla, a causa delle vicissitudini interne del dopo Mubarak e l’attacco all’ambasciata israeliana dei giorni scorsi testomonia appieno la virata che rischia di prendere un Paese che era sempre stato la prima garanzia di equilibrio nel Mediterraneo. L’alleato che anche il governo Netanyahu in questo momento teme maggiormente di perdere.
Ma Ankara rischia di essere un player mediorientale credibile solo per sé stessa e il Mediterraneo che intende tutelare ma non per Europa e Stati Uniti, sbilaciato nella sua politica neo ottomana a favore di alcuni Paesi, quando invece il suo equilibrio fra est e ovest è sempre stata la sua caratteristica fondamentale.
Un player inaffidabile già dai suoi inizi, con la posizione mediana ai limiti del disimpegnato sulla Libia e il silenzio delle ultime tre settimane sulla Siria. A cui si è andato ad aggiungere lo strappo profondo con Israele, che potrebbe non essere ancora finito. Ankara in questi giorni ha minacciato nuove sanzioni per la mancate scuse ufficiali all’attacco della Mavi Marmara. Navi della Mezzaluna potrebbero iniziare a scortare convogli umanitari come quello della Freedom Flottiglia, sfidando non più solo Israele ma tutta la comunità internazionale. Quella che arriva al Cairo è una Turchia ambiziosa, che alza la posta nel Mediterraneo ma anche alle Nazioni Unite, ma che rischia di ritrovarsi con un pugno di mosche in mano o peggio ancora che la situazione le sfugga di mano.
Gli Stati Uniti prendono tempo, l’Europa sta a guardare, Israele si preoccupa. Recep Tayyip Erdogan invece va spedito, sapendo che ormai ha buone probabilità di portarsi dietro buona parte del Medio Oriente. Bisogna solo capire dove. La risposta potrebbe arrivare dalla risposta della piazza ai comizi di Erdogan, insieme con nuove brutte notizie per Israele.