Legislatori a casa nostra ma la Costituzione dice no

Legislatori a casa nostra ma la Costituzione dice no

Leggi, regolamenti, voucher e bonus solo per i residenti, in palese contrasto con le leggi dello Stato. O, molte volte, con il semplice buon senso. Dall’ottobre 2001, quando il referendum ha modificato il titolo V della Costituzione, dando carta libera alle regioni in materia di assistenza e organizzazione sanitaria, istruzione e formazione professionali e  – soprattutto – polizia locale e governo del territorio è stato un proliferare di leggi e regolamenti. Molti in conflitto con la Costituzione (con la Consulta che puntualmente le boccia) perché hanno seguito, come criterio di merito, la cittadinanza o la residenza. Linkiesta ricostruisce in un viaggio attraverso l’Italia delle leggi e delle ordinanze comunali che, al Nord, hanno stretto un giro di vite soprattutto sull’immigrazione.

Le schede regione per regione:

Friuli Venezia Giulia

Veneto

Lombardia

Piemonte

Laboratorio Friuli Venezia Giulia
La regione autonoma del Friuli Venezia Giulia, per il suo cambio di politiche in materia di welfare è considerata un vero e proprio laboratorio di federalismo legislativo. E c’era da capirlo fin da uno dei primi atti della nuova giunta (Pdl e Lega Nord), insediata nell’aprile 2008: dopo tre mesi viene cancellata la legge sull’immigrazione. Insieme a quella dell’Emilia Romagna, era in Italia la seconda legge regionale in materia, considerata un modello perché nata da un percorso partecipato, dal basso, con il coinvolgimento di enti pubblici, associazioni, singoli operatori, italiani e immigrati. Oggi, al suo posto, resta un vuoto normativo. «È chiaro che le motivazioni sono puramente ideologiche» spiega Gianfranco Schiavone, esperto di diritto. «Una norma, infatti, o si modifica o, se viene abrogata, la si sostituisce. A meno che non tratti di eventi passati, desueti, e non è proprio il caso del fenomeno immigrazione».

Il programma deciso a Trieste nel Consiglio regionale va avanti nella stessa direzione: si modificano regolamenti voluti dalla giunta di Riccardo Illy. Per avere accesso ai benefici di welfare ora è fondamentale l’anzianità di residenza. Lo stesso vale per la carta famiglia, il fondo di povertà sociale, il bonus bebè, i contributi per l’acquisto della prima casa, le assegnazioni di alloggi popolari: la priorità viene data a chi resiede da 8-10 anni. In 3 anni, sono 14 gli interventi legislativi per i «restringenti» voluti dalla maggioranza e 13 i ricorsi. Ordinanze del Tribunale di Udine bocciano i provvedimenti sui bonus bebè e sul fondo per chi vive in affitto, che richiede 10 anni di residenza.

E poi, piovono le denunce alla Commissione europea: chiedono a quest’ultima di avviare la procedura di infrazione dinanzi alla Corte di Giustizia europea nei confronti della Repubblica Italiana per violazione degli obblighi europei. Questi interventi sono in palese contrasto con l’articolo 12 del Trattato sulla Comunità europea. Ma la vera doccia fredda arriva dal Governo: esaminando la Finanziaria regionale 2010, il Consiglio dei Minisitri si sofferma sull’articolo 9: i suoi cinque commi, ”imposti” dalla Lega e approvati a maggioranza, correggono la legge sul welfare. Riscrivendo le regole d’accesso: si ammettono solo i cittadini comunitari residenti da 36 mesi.

Palazzo Chigi impugna la finanziaria, apre il contenzioso in Corte costituzionale e spiega che la presunta «disposizione di salvaguardia non compensa le ingiustificate limitazioni nell’accesso al sistema dei servizi». Sottolinea che il paletto dei 36 mesi discrimina persino gli italiani. Sì, perché lo Stato affida alle leggi regionali il compito di disciplinare l’accesso al welfare di cittadini comunitari e stranieri ma «tale delega non si può tradurre in un’esclusione di intere categorie di persone, come extracomunitari o senza fissa dimora, indiscriminata e ingiustificata». Un brutto colpo per il presidente della Regione Renzo Tondo: il suo stesso partito (Pdl) ha bocciato la sua «riforma» sul welfare. Nessun dubbio, invece, per il capogruppo regionale della Lega Nord Danilo Narduzzi (ideatore delle riforme), che dichiara che non c’è alcuna discriminazione nello stabilire un criterio di anzianità di residenza: «Abbiamo semplicemente chiuso la stagione dell’assurda penalizzazione cui i nostri concittadini erano stati condannati dalla sinistra».

E infine, nonostante le correzioni successive, il 7 febbraio 2001 arriva la sentenza della Consulta: la legge regionale «è contraria ai principi costituzionali di uguaglianza e ragionevolezza in quanto l’esclusione dei cittadini extracomunitari fondata sull’esclusivo criterio della nazionalità crea delle distinzioni arbitrarie in relazione alla natura e agli scopi dei benefici sociali previsti». Vietata l’esclusione tout court dei cittadini extracomunitari dal sistema integrato dei servizi sociali. Ma cosa era successo in Friuli con il cambio della giunta dal centrosinistra al centrodestra?

«Il cambiamento politico – commenta Walter Citti, consulente dell’associazione studi giuridici sull’immigrazione – è coinciso con una forte egemonia culturale della Lega che ha voluto imprimere il principio della consenguinità giuliana e friuliana. Quindi, secondo loro, vengono prima ma gli autoctoni degli alloctoni. Ma attenzione: – avverte Citti – promuovere queste politiche, sebbene motivate per la sicurezza, nel lungo periodo possono portare a una maggiore insicurezza dal punto di vista sociale».

In Veneto pacchetti pro-Veneti
Il pacchetto legislativo, approvato in commissione Affari e Bilancio e proposto dalla Lega a metà settembre, si articola in 6 proposte di legge che hanno l’obbiettivo di privilegiare i veneti nell’assegnamento di contributi per la prima casa, alloggi popolari, buoni scuola e graduatorie per asili nido. Non solo. Il “pacchetto pro-veneti”, come è stato ribattezzato, considera valido il privilegio solo per chi riesce a dimostrare  di risiedere o di aver lavorato continuativamente in Regione da almeno 15 anni. In questo modo, si impone uno sbarramento insormontabile per tutti gli “immigrati”, italiani o stranieri senza differenza. Le sei proposte furono il cavallo di battaglia della Lega nella precedente legislatura, quella del 2008. E nel 2010 sono diventate un punto del programma della maggioranza guidata dal governatore Luca Zaia, il cui slogan, “Prima il Veneto”, non lascia dubbi in merito.

Il pacchetto pro-veneti ha però suscitato una decisa reazione in Commissione, non solo tra le file dell’opposizione. Nereo Laroni, espoente in quota Pdl e alleato della Lega, si è ufficialmente rifiutato di votarlo. E anche la Chiesa locale si dissocia: il delegato alla pastorale del Nordest, monsignor Fabio Longoni, bolla i provvedimenti come «discriminatorii e contrari alla nostra Carta costituzionale». E si dice certo che il provvedimento, così come formulato «è un azzardo e dubito che sarà approvato». Ma il partito di Bossi non è disposto a cedere di un millimetro. Con la sua azione sta invece ispirando altre Regioni del Nord, tra cui la Lombardia, che in questi giorni con il presidente del Consiglio lombardo, il leghista Davide Boni, si dice pronta «a seguire l’esempio del Veneto».

No ai «phone center» per la Lombardia
La Lombardia si è “distinta” per leggi mirate già dal 2006, quando la Regione ha imposto vincoli sui phone center, i centri dove si può telefonare e navigare in Internet. Per ottenere l’autorizzazione dal Comune, prevista dalla legge regionale, occorrono, ad esempio, due bagni (tre nei locali che superano i 60mq) e una sala d’aspetto. E, per svolgere l’attività di phone center, si deve obbligatoriamente rinunciare a tutte le altre (es. money trasfert, spedizione pacchi ecc.).

A spiegare le motivazioni di queste iniziativa, una volta entrata in vigore (portando con sé le prime chiusure) è il consigliere regionale del Carroccio Fabrizio Cecchetti: «La Lega Nord ha sempre sostenuto la potenziale pericolosità di questi centri di telefonia che, in troppi casi, si sono dimostrati fucina di illegalità e ritrovo di immigrati clandestini. Da qualche settimana, le amministrazioni comunali hanno uno strumento in più per garantire ai lombardi maggiore sicurezza».

Peccato che nel 2008 una sentenza della Consulta stabilsce che limitazioni per ragioni di sicurezza, a cui implicitamente si rifaceva il legislatore lombardo, possono essere percorse solo dall’autorità statale e per motivi previsti nel Codice delle comunicazioni. Nel frattempo, 250 esercizi di questo tipo hanno dovuto chiudere i battenti. Ma non è tutto. Dopo tre anni, lo scorso 16 settembre 2011 arriva un’altra proposta avanzata in consiglio regionale: servizi primari con precedenza ai lombardi da almeno 15 anni che avrebbero diritto ad un punteggio maggiore per accedere agli asili nido, alla scuola, la dote scolastica e le case popolari.

Regione Piemonte a trazione leghista
Negli stessi giorni, il Consiglio regionale del Piemonte approva una delibera presentata dal governatore Roberto Cota, e dall’assessore all’Istruzione, Alberto Cirio, che garantisce il posto di lavoro a più di 600 tra insegnanti e personale della scuola per il nuovo anno scolastico. La delibera prevede che, a parità di risorse, la Regione riesca a fornire lavoro a 200 persone in più rispetto al precedente anno scolastico, per «garantire l’apertura delle scuole di montagna e delle aree disagiate, nonché il sostegno all’handicap», sostiene il governatore leghista. I posti di lavoro in più che la Regione promette sarebbero garantiti da un accordo con l’Inps, che pagherebbe metà dello stipendio ai nuovi assunti considerando l’importo come sussidio di disoccupazione. La prestazione viene fatta rientrare nella categoria dei lavori «socialmente utili», dunque non una vera assunzione. Tutto bene quindi: la regione interviene con soldi propri per migliorare la scuola e garantire lavoro.

Ma la delibera firmata da Cota e Cirio, non si limita a questo. Nella bozza aggiunge una norma che sorprende i sindacati, da subito entusiasti per la possibilità dei nuovi inserimenti. Secondo il testo infatti, il personale scolastico deve «essere iscritto all’Inps regionale e pertanto residente, o comunque stabilmente e legalmente domiciliato in Piemonte». Un modo per privilegiare chi risiede da lunga data in Piemonte, e per evitare che personale docente proveniente da fuori, con un punteggio più alto, possa superare quello locale nelle graduatorie.

«Non si tratta di privilegiare gli uni rispetto agli altri», si è giustificato Cota presentando il “salva-precari” regionale, «ma solo di applicare la regola del buon senso, perché con risorse regionali è giusto che si pensi a difendere il lavoro di chi in questa regione ci vive e paga le tasse». Il buon senso non basta ai sindacati che, ad accordo praticamente firmato, impongono uno stop alle trattative. La Cgil del Piemonte, attraverso Rodolfo Aschiero, fa sapere di non essere disposta a siglare un normativa «in deroga a una legge dello Stato, che discrimina gli insegnanti in base alla provenienza». Alla Cgil si aggiungono le perplessità di Cisl e Uil, tanto che l’assessore all’istruzione è costretto a modificare la delibera. Che si limita ad emendare «ai soli residenti» con un meccanismo che favorisce l’assunzione di coloro che hanno lavorato in Piemonte da almeno tre anni. «La sostanza non cambia», attacca Rodolfo Aschiero, «se la delibera non viene modificata non firmeremo, e penso che si aprirà un contenzioso con il Ministero, a causa dell’incostituzionalità della scelta».

Il “pacchetto sicurezza” del ministro Maroni
A dare ulteriore impulso alle iniziative locali il “pacchetto sicurezza” voluto dal Ministro dell’Interno Roberto Maroni. Rimane razzismo o semplice convenienza politica? Secondo Paolo Bonetti, costituzionalista dell’Università di Milano Bicocca, «è fuorviante ritenere che il problema sia di tipo ideologico o xenofobo: siamo di fronte al problema dell’accesso delle prestazioni, che deve fare i conti con i limiti delle risorse disponibili. Nel dubbio, se limitare le prestazioni a tutti o no, è meglio, dal punto di vista populistico e politico, limitare l’accesso a pochi».

E se per le ordinanze comunali la Consulta è stata netta, in materia di sicurezza non c’è ideologia locale che tenga: «Le politiche – conclude Bonetti – vanno decise a livello nazionale, perché il tema è di grande complessità, decidere di dare poteri ai sindaci è un intervento di pura e semplice repressione».

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Da uno studio dell’Anci, in un anno il pacchetto sicurezza che ha concesso agli amministratori locali poteri extra ha creato centinaia di nuove ordinanze. Alcune stravaganti. Altre, come stabilito dalla Consulta, discriminatorie nei confronti dei cittadini che la Costituzione riconosce come uguali di fronte alla legge.
 

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