Muˈammar Abu Minyar al-Qaddafi, guida della Grande Jamahiria Araba Libica Popolare Socialista, è morto il 20 ottobre 2011 all’età di 69 anni. Sono gli obituaries apparsi sulla stampa internazionale a ricordare la parabola del colonnello. Dopo essere stato il leader rivoluzionario vicino all’Egitto di Nasser che nel 1969 prese il potere nella Libia monarchica di Idris bin Abdullah al-Senussi senza sparare un colpo, Gheddafi agì per realizzare quella sorta di rivoluzione permanente che è divenuta la Jamahiriya, una sorta di decostruzione della statualità di derivazione europea, tramutatasi in una illusoria democrazia diretta.
Il colonnello ha finito così per trasformarsi nello spietato dittatore che per anni è stato sulla lista nera di tanti Stati occidentali per i suoi legami con tanti e diversi movimenti terroristi. Come ha giustamente ricordato Barack Obama nella sua dichiarazione pubblica seguita alla notizia dell’uccisione a Sirte, il rais ha governato «in violazione dei diritti umani» attraverso la sistematica e violenta repressione di ogni opposizione nel paese. La guerra civile che ha portato alla fine del regime ha contemporaneamente dimostrato il fallimento del progetto nazionale del rais, enunciato nel celebre Libro verde e poi scaduto in un regime di sistematica corruzione e clientelismo legato agli equilibri familiari e tribali che facevano perno sulla stessa qabila, la tribù di Gheddafi, la Qaddafiya.
La morte del dittatore rappresenta la vittoria finale della rivolta nata a Bengasi, nell’Est del paese, lo scorso febbraio, ma ha anche l’effetto di porre il Consiglio nazionale di transizione di fronte alle proprie responsabilità verso il futuro del paese e alle promesse fatte durante i mesi di guerra. È stato sempre lo stesso presidente statunitense che, dopo essersi congratulato con l’intero popolo libico per la liberazione dal dittatore, ha enfatizzato come la sfida che attende il Consiglio nazionale di transizione è quella di creare una «democrazia inclusiva». Barack Obama sa bene infatti che la guerra appoggiata dall’intervento Nato in nome di una «nuova e democratica Libia» ha in effetti rivelato le tante anime regionali e identitarie di una rivolta presto degenerata in una lotta fratricida. L’ex leader libico non è riuscito in 42 anni di regime a trasformare l’invenzione del nostro colonialismo in uno Stato unico e unitario, la sfida per i nuovi dirigenti della Libia è ora quello di guidare il paese verso una transizione democratica, limitando il più possibile le forze centrifughe che attraverso la guerra non sono solo venute allo scoperto, ma per alcuni versi si sono anche accresciute.
Gheddafi è morto, ma cosa ne sarà dei tanti sostenitori che fino all’ultimo ha avuto il regime? La soluzione deve appunto essere inclusiva, ma è stata proprio la guerra per una nuova Libia a renderla una soluzione di non semplice o immediata realizzazione. La grande quantità di armi in mano di molti, probabilmente moltissimi, libici è di per sé un fattore di instabilità, oltre che di insicurezza. Non è poi un semplice dettaglio il fatto poi che nel Sud del paese ci siano ancora sacche di resistenza. L’ultimo interrogativo, forse il primo per importanza, riguarda infine il dato di fatto che gran parte dei dirigenti della nuova Libia arrivano direttamente dai ranghi dell’ex regime dopo essere passati alla rivolta. Tutte problematiche che ho sollevato dalle pagine de Linkiesta già nei mesi scorsi ma che ora, se la guerra è davvero finita, attendono di essere affrontate e risolte per conseguire una reale democratizzazione.
A suo modo Gheddafi è rimasto coerente con sé stesso e come promesso ai libici e al mondo è rimasto a combattere fino alla fine contro «i nuovi e vecchi colonialisti», per usare la retorica delle sue parole, adesso è il momento di vedere se i nuovi dirigenti della Libia saranno altrettanto coerenti con loro stessi e rimetteranno al popolo libico il potere assunto attraverso la guerra. Per “noi” la nuova Libia è sicuramente più rassicurante perché è molto più vicina di quella vecchia all’Occidente, resta da vedere se l’ennesima guerra per la democrazia nel mondo porterà davvero alla democratizzazione della Libia.
*Docente in Storia dell’Africa, Università di Pavia