Lo scorso luglio 16 luglio, negli ultimi fuochi del gheddafismo, una delegazione libica si presentò a Pechino. Sul piatto c’era l’offerta presentata da tre grandi compagnie statali cinesi: lanciarazzi, bombe anticarro e i famigerati missili terra-aria, simili agli americani Stinger, armi in grado di abbattere persino aerei militari. Spesa totale, 300 milioni di dollari. L’affare, che avrebbe dovuto transitare attraverso paesi terzi, Algeria o Sudafrica, saltò, ma provocò un duro scontro tra il Ministero della Difesa, sensibile agli interessi dell’industria bellica, e quello degli Esteri, chiamato viceversa a negoziare la posizione del Paese in materia di sanzioni internazionali. Sì, perché la misteriosa transazione, svelata qualche settimana fa dal quotidiano canadese “The Globe and Mail”, avrebbe violato la risoluzione Onu 1970, votata dalla stessa Cina, che impone l’embargo sulla vendita di armamenti alla Libia.
A Bengasi, però, faticheranno a dimenticare l’atteggiamento ambivalente del Dragone, che fino alla presa di Tripoli ha continuato a giocare su due tavoli. L’affaire pechinese, al di là delle ripercussioni sulle future relazioni sino-libiche, mostra tutte le ambiguità del colosso asiatico, rimasto spiazzato da quella primavera araba che, per la prima volta, mette in discussione uno dei cardini della sua politica estera, il principio di non-interferenza negli affari interni di altri Paesi.
La Cina si è astenuta durante la riunione del Consiglio di Sicurezza che ha votato la risoluzione 1973, base giuridica per l’intervento dell’Alleanza Atlantica in Libia, ma ha criticato ripetutamente la missione “Unified Protector” sostenendo che avesse superato i limiti del mandato Onu. Il Dragone si è proposto come mediatore tra le parti in conflitto, non tanto per convinzione quanto per la necessità di preparare terreno fertile ai propri interessi, qualunque fosse stato l’esito della guerra. A giugno i leader di Bengasi sbarcarono a Pechino per prendere contatti col governo. Giusto qualche settimana prima delle mancate forniture belliche alla controparte.
Solo lo scorso 12 settembre, a venti giorni dalla conquista della capitale, la Cina ha riconosciuto il Consiglio nazionale transitorio quale unico rappresentante del popolo e sola autorità esistente. Un ritardo che a Bengasi hanno annotato con cura. Perché è altrettanto probabile che la leadership del Cnt sia oggi impegnata nello stilare liste di priorità, da estrarre dal cassetto nel momento in cui verranno discussi contratti e forniture della nuova Libia.
La repentina photo opportunity del duo Sarkozy-Cameron, in visita prima a Tripoli e poi a Bengasi, ha mostrato come la caccia ai nuovi appalti si sia ufficialmente aperta. La lista dei meriti acquisiti è lunga. Si va dalle compagnie di trading, che hanno fornito prezioso carburante durante il conflitto, come la svizzero-tedesca Vitol, l’olandese Trafigura e la cipriota Gunvor, ai giganti petroliferi della coalizione, l’Eni, la francese Total, la spagnola Repsol, l’inglese BP, l’anglo-olandese Shell, le americane Marathon, ConocoPhillips e Amerada Hess. Pechino fa invece parte dell’elenco parallelo, assieme a Russia, India, Brasile, Sudafrica e Algeria.
Cantiere per operai cinesi a Bengasi, abbandonato dopo la guerra civile
Nella selva di opportunità offerte dalla ricostruzione post-libica la Cina partirà da una posizione svantaggiata rispetto alle potenze che hanno sostenuto fattivamente l’intervento anti-Gheddafi. Col regime il Dragone, come gran parte delle potenze mondiali, aveva fitti rapporti commerciali. Aveva stipulato contratti infrastrutturali per 18 miliardi di dollari. Da Tripoli importava il tre per cento del proprio fabbisogno petrolifero, una percentuale che era destinata a crescere. Adesso, alla Libia serviranno dai 15 ai 18 mesi per tornare ai livelli di produzione pre-crisi, 1,6 milioni di barili al giorno. Bisognerà riparare i danni di guerra e sminare i terreni in cui si trovano gli impianti, soprattutto nel bacino di Sirte, che ospita i due terzi del petrolio libico.
La perdita per il gigante asiatico, che ha già dovuto richiamare in patria oltre 30.000 lavoratori, potrebbe essere non solo congiunturale. La primavera araba ha provocato un regime change in tre Paesi (Tunisia, Egitto, Libia) in cui la stabilità politica faceva rima con despotismo. Altri raìs, dalla Siria allo Yemen, vacillano. Altri ancora, dall’Algeria alla Giordania, restano aggrappati al potere con misure populiste o concessioni parziali. Pechino è rimasta spiazzata da questo rivolgimento storico, che non si limita a mettere in discussione i legami politico-economici stabiliti con i regimi deposti, ma sottopone a profonda revisione l’intero impianto della politica estera cinese, fondato sul principio di non-interferenza negli affari interni di altri Stati.
Per la Cina Africa e Medio Oriente sono una vitale fonte di risorse energetiche, oltre che un fiorente mercato per beni e servizi, soprattutto infrastrutturali. Per difendere questi interessi la non-interferenza non basta più, perché la stabilità, in regimi non democratici, è un fattore relativo.
La prima risposta del Dragone alle rivolte nordafricana è stata in pieno vecchio stile. I media governativi hanno descritto i contestatori di Mubarak come pericolosi fuorilegge. Il gelsomino, simbolo della rivolta tunisina, è stato addirittura bandito dalle bancarelle cinesi. Progressivamente, però, c’è stata una cauta apertura nei confronti degli oppositori, quando Pechino si è accorta che i despoti erano sul punto di cadere. Un ritardo calcolato, secondo alcuni, per i quali il sostegno del gigante status quo era dettato dall’assenza di un’alternativa riconosciuta.
Sul piano retorico, il principio della non-interferenza rimane sacro. Lo scorso 6 settembre la Cina ha pubblicato un Libro Bianco dedicato al proprio “sviluppo pacifico”. Un documento in cu Pechino conferma di rispettare il diritto di ciascun Paese di “scegliere in maniera indipendente il proprio sistema sociale e il proprio cammino verso lo sviluppo”. Eppure gli eventi libici hanno costretto il Dragone a un insolito attivismo diplomatico. Anche in Sudan il tradizionale supporto cinese ad al-Bashir non ha impedito l’immediato riconoscimento della parte meridionale del Paese, ricca di risorse petrolifere, resasi indipendente dopo un referendum a cui hanno partecipato osservatori di Pechino. Il XXI secolo è destinato a diventare il secolo giallo, ma la Cina deve capire in anticipo la direzione della storia, per evitare spiazzamenti improvvisi e faticose rincorse.