Ferrara cala il sipario sul berlusconismo nel teatro di Silvio e Veronica

Ferrara cala il sipario sul berlusconismo nel teatro di Silvio e Veronica

MILANO – Povero Giuliano. Per l’ultimo raduno, ha scelto il teatro Manzoni di Milano. Proprio dove Silvio Berlusconi, nel 1980, si innamorò di Veronica Lario. Una scelta dovuta. Del resto anche quello di Ferrara, se lo si guarda bene, è un atto d’amore, forse l’ultimo, per il Cavaliere. Da lui abbreviato, con molto affetto, in Cav. Così, mentre sembra chiudersi l’ultimo atto della cavalcata (politica) di Silvio, richiama insieme i fedeli della prima e dell’ultima ora e lancia l’ultima disperata battaglia.

La tensione è alta: si comincia alle 11 in punto: «Come si fa alla Scala», scherza Ferrara. Ma le siepi di fotografi e cameramen bloccano la visuale del teatro pienissimo, il pubblico si lamenta, il nervosismo c’è, e lo show ha alcuni attimi di ritardo. Nel buio rosso cupo della sala, la folla mostra capelli bianchi e grigi. Alcuni strillano, altri borbottano, altri ancora sventolano Foglio e Giornale. Poi, alla fine, lo spazio si libera. E dal palco si erge in piedi, maestoso, lui.

Niente mutande appese, stavolta, come aveva fatto al Dal Verme a febbraio. Niente ospiti d’onore: Formigoni, presente l’altra volta, ora non si fa vedere. Niente La Russa che scalcia (o meglio, ce n’è solo uno, il fratello Romano), niente di tutto questo. L’umore è diverso, sembra il momento delle grandi occasioni, il tono è allegro, ma le parole sono quelle di un elogio funebre. «Sappiamo tutti perché siamo qui», scalda la folla. Il microfono si inceppa, partono alcuni colpi. «Tranquilli, non sono bombe, al massimo è Goldman Sachs», ridacchia. E parte il comizio, un remix dei pezzi degli ultimi giorni scritti sul Foglio e ripetuti a Radio Londra. Il punto è quello: siamo di fronte a un golpe, spiega Ferrara, strappando l’entusiasmo del pubblico. «Sono provvedimenti decisi senza la consultazione dei cittadini», sono operazioni che «non tengono conto della sovranità», scippata al nostro paese. E non solo al nostro: «la Grecia è un grande popolo europeo, e la sua crisi finanziaria è stata governata in modo assolutamente fallimentare», spiega.

Ma come è possibile, si chiede Ferrara, «che Berlusconi, l’uomo dell’anti-politica, si trovi ora a dover combattere una battaglia contro l’anti-politica?» tutti approvano. Perché no, questa non è politica, «perché espropria il diritto di essere governati da persone che godono del consenso». E se una rivoluzione Silvio ha fatto, è proprio quella: «far governare chi decidono i cittadini». Tanto vero che, ricorda Ferrara, «non ha sempre governato lui. Oltre alla barbarie del governo Dini, abbiamo avuto dei governi di sinistra». Del resto, «vi permetto di fischiarmi, anzi, vi prego di fischiarmi», premette, «ma secondo me è meglio perfino un governo di sinistra rispetto a questo scempio», urla, la folla va in delirio.

«Non scherziamo: Mario Monti è rispettabile, certo. E pensare ai poteri forti è solo una sciocchezza», ma «la questione dell’euro va ripensata. Perché sono stati cuciti su Francia e Germania», e l’Italia, che pure è un grande paese, viene sbeffeggiata, perfino da Sarkozy. «E allora, Frattini non lo doveva permettere». No: «doveva convocare l’ambasciatore di Francia e chiedergli conto di questa mascalzonata» urla, la folla si alza in piedi. Il canto del cigno del berlusconismo?

Insieme al direttore del Foglio, sul palco sfilano Vittorio Feltri e Alessandro Sallusti: il primo gigioneggia sull’appoggio della sinistra al governo Monti, che ritiene impossibile. «Come può approvare le misure chieste dalla Bce, come l’abolizione dell’articolo 18?», poi Sallusti, che attacca Monti perché legato a Goldman Sachs, «un covo di ladroni, i colpevoli di tutta questa crisi». Ferrara, a suo avviso, era stato «troppo tenero con lui»Non manca Gianfranco Rotondi, l’unico ministro al Manzoni, che si oppone al «golpe», e la pasionaria Daniela Santanché: «non sono qui per il funerale di Silvio». Ma per attaccare i suoi nemici: bordate contro Gianfranco Fini, che non ha ancora lasciato la poltrona. E al suo sodale Italo Bocchino. Il pubblico è deliziato: «Berlusconi non va abbandonato», inneggia. Il teatro si accende, torna la speranza, forse, per un attimo. Anche perché la Santanché deve partire presto, per marciare su Roma.

Ma non è il fascismo, questo. Non è, come dice Ferrara «il caso di un dittatore caduto. Non siamo a Salò (con tutto il rispetto per quel periodo)». Niente bella morte, allora. Ma la denuncia di un colpo di mano che lava via l’unica «eredità del berlusconismo: il bipolarismo». Per quanto «galante con le donne, appesantito dall’obbligo di guardare alla vita pubblica e all’amministrazione delle aziende, per quanto fantasioso, poco incline a seguire i protocolli», Berlusconi non è il male. C’è di peggio, sembra suggerire.

E finisce così. L’ultimo atto d’amore per Berlusconi è stato compiuto, un mattino di novembre al teatro Manzoni di Milano. Se poi anche questo seguirà la sorte del matrimonio di Silvio con Veronica, non promette nemmeno bene. Quello che voleva dire, però, Ferrara l’ha detto. Quasi più per puntiglio che per altro. Per orgoglio, forse. E, sfuggendo ai cronisti, l’elefantino esce rapido di scena. Lascia gli altri a rispondere alle domande di televisioni e giornali, che si chiedono ancora come abbia fatto il berlusconismo a finire così. 

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